LE MONADI EGOLOGICHE.


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Come abbiamo già avuto modo di vedere, l’empatia, secondo Husserl, è l’esperienza intenzionalmente rivolta che giustifica la percezione degli alter ego. Ed essendo, quindi, frutto della nostra coscienza percettiva, anche su di essa può essere apportata una duplice riduzione fenomenologica:

  1. una prima riduzione è rivolta nei riguardi dell’empatia strincto sensu, ovvero verso l’empatia in quanto oggetto di un’esperienza di un’intuizione fenomenologica;
  2. una seconda riduzione, invece, è rivolta nei riguardi dell’empatia nel senso di «esperienza di una coscienza empatizzata» – ovvero verso tutto ciò, all’interno del quale, l’empatia medesima è già stata ridotta -.

Non dimentichiamo che restano due gli “spazi” conoscitivi dove svolgere ed attingere conoscenza, nella fenomenologia husserliana: quello delle “cose” – regolato dalla causalità – e quello degli alter ego – caratterizzato dall’intenzionalità empatica –.

Husserl sostiene che un soggetto empatizzato – l’alter ego – ed il relativo “esperire empatizzante” (del percipiente) non possono appartenere allo stesso io fenomenologico.  Anche in questo caso, si tratta di un concetto non particolarmente difficile da comprendere, una volta fatta un po’ di chiarezza. In breve, possiamo affermare che, quando io “empatizzo” un alter ego a me prossimo – cioè lo “riduco” attraverso un’esperienza empatica -, l’empatizzato medesimo non coincida con il mio “esperire empatizzante”: «nessun canale conduce dalla corrente empatizzata a quella corrente alla quale appartiene l’empatizzare stesso.» Riduciamo all’osso l’intera questione: ciascun io fenomenologico, da una parte, è, per l’appunto, un io fenomenologico che percepisce, esperisce, attende, ricorda ed esegue la riduzione sull’oggetto intenzionale della propria esperienza percettiva. Ma, al contempo, dall’altra parte, è anche un altro “io” posto nell’empatia da parte di un alter ego che, difatti, lo empatizza. Ma anche nelle vesti di “empatizzato” – esattamente come nelle vesti di “empatizzante” – resta sempre un io fenomenologico che percepisce, esperisce, attende e via discorrendo.

Abbiamo visto che l’io è sempre in perenne riferimento al proprio corpo vivo. E questo vale sia per l’empatizzato che per l’empatizzante. In ogni caso, entrambi restano i punti centrali dell’ambiente a loro circostante. Quando rivestiamo il ruolo di empatizzante, questo è quasi immediato da intuire e percepire. Ma dobbiamo tenere a mente che anche per l’empatizzato ogni oggetto sensibile continua a mostrarsi come possibile di esperienza fenomenologica. La Natura, quindi, può essere intesa come una «legalità universale» che accoglie tutte le diverse correnti di coscienza di tutti gli io connessi tra di loro empaticamente. Questa è ciò che Husserl definisce «relazione tra monadi egologiche». Ed è una riflessione fondamentale. Perché, per l’ennesima volta, si ribadisce come il fine della fenomenologia sia, solo e soltanto, il volgere la propria attenzione sul modo di essere delle connessioni fenomenologiche – il cogliere ogni cosa “in sé” e “per sé” -.

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6 pensieri su “LE MONADI EGOLOGICHE.

  1. Quando Husserl parla di una seconda riduzione nei confronti di una “coscienza empatizzata”, cosa intende? Esperienza di una coscienza empatizzata da un altro ego o io fenomenologico?

    Le tue esposizioni riguardo al pensiero Husserliano mi sono state di grande aiuto nella lettura delle ultime parti dell’opera, grazie.

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  2. Ciao Luca. La doppia riduzione fenomenologica deve sempre essere intesa nei riguardi, in primis, del contenuto stesso della percezione – in questo caso, quindi, l’empatizzare in senso stretto – e, in secundis, della “cornice” che fa “da sfondo” al contenuto di cui sopra.
    Bisogna comunque fare un minimo di chiarezza.
    “Ridurre un io fenomenologico” può voler dire soltanto una cosa, stando al pensiero di Husserl. Ovvero “tornare” alla res cogitans. Questo è (probabilmente) l’unico vero punto di contatto tra Husserl e Descartes. Il “cogito ergo sum” cartesiano, infatti, è spiegato da Husserl in termini fenomenologici: ridurre fenomenologicamente l’io (psicologico) implica per forza di cose il rendersi conto di come esso produca cogitationes. La differenza con Descartes resta ad ogni modo forte dato che a differenza della “causalità imperfetta” cartesiana abbiamo qui una riduzione fenomenologica che fa “perno” sulla contingenza.
    Quando poi tu parli di “coscienza empatizzata da un altro ego”, in sintesi, esponi il “dualismo” che sta alla base della stessa intenzionalità empatica, dove l’empatizzante è a sua volta empatizzato.

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  3. Quindi, una prima riduzione fenomenologica porta alla pura immanenza: la coscienza come flusso unitario della molteplicità delle esperienze. Muovendomi poi all’interno di tale flusso, posso, tramite una seconda riduzione intuire il contenuto delle oggettualità fenomenologiche? E quindi così che ogni esperienza naturale diviene esperienza fenomenologica?

    Ti ringrazio per la risposta precedente.

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    • Cosa intendi per “pura immanenza”? Ritengo sia molto difficile parlare di immanenza in Husserl senza tener conto della trascendenza. Se dovessimo considerare la pura immanenza come fine dell’atteggiamento fenomenologico correremmo il rischio di privare l’intera riflessione husserliana di un suo concetto fondamentale: ciò che otteniamo dal “metter fuori circuito la Natura” si riduce sempre e comunque ad una verità prospettica. La fenomenologia, del resto, è tanto antitetica allo scetticismo – non esiste una verità assoluta della quale mettere in dubbio la veridicità o giustificazione – quanto distante da una interpretazione relativista della conoscenza – non si tratta di una interpretazione parziale della verità ma, per l’appunto prospettica -. Tieni anche conto del fatto che siamo oltre l’atteggiamento naturale: il percepi empirico potrebbe permetterci di sommare tra loro le esperienze ma qui stiamo ragionando in seno a flussi di coscienza. Husserl non nega l’importanza delle particolarità sensibili – il Mondo eidetico non gli interessa più di tanto -, quindi l’oggettualità resta fondamentale. Ed essa è inevitabilmente immanente. Ma l’atteggiamento fenomenologico, in quanto contingente, fa sì che a tale immanenza segua sempre una trascendenza – in termini pontyani è il lato non visto della lampada -. Ogni esperienza naturale diviene fenomenologica nell’attimo in cui verso la stessa viene riversata una ritenzione fenomenologica che permette di cogliere la datità assoluta di quanto osservato – il “tornare alle cose” husserliano consiste in questo -. Parlare di “flusso unitario della molteplicità delle esperienze” è corretto in riferimento alla definizione di monade – dove la monade altro non è che l’ego fenomenologico -, ma ricorda che tali esperienze non sono correlate da legalità ma semplicemente concatenate le une alle altre. In questo consiste anche una doppia riduzione fenomenologica. Non si tratta di sostenere come l’oggettualità in sé e per sé venga contemplata solo nella seconda riduzione: se pensi ad esempio ad una gita al mare che hai fatto tempo addietro, una prima riduzione può investire la gita mentre, una eventuale seconda riduzione, una particolarità ad essa correlata (per esempio, se c’era o meno il Sole). Non a caso la rammemorazione è tenuta in considerazione proprio per spiegare la doppia riduzione fenomenologica all’interno del pensiero husserliano.

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  4. Intendo dire che Husserl, nell’atteggiamento fenomenologico, mettendo “fra parentesi” il concetto naturale di mondo, mettendo fuori circuito ogni posizione di esistenza naturale compiuta nella coscienza (intesa come flusso unitario dell’esperienza empirica), trova ancora la coscienza, ma come essere puramente immanente che non si dà tramite manifestazioni.

    La trascendenza, nell’atteggiamento fenomenologico, si trova nella ritenzione, rimemorazione, attesa e empatia poichè esse non sono datità assolute. A differenza della percezione che viene considerata nell’ adesso come punto limite, posto fra un orizzonte ritenzionale e protenzionale.
    Sebbene, Husserl parli di possibile trascendenza in relazione ad ogni esperienza fenomenologica, potendo intendere ogni esperienza come un’attesa (su questo ultimo punto non sono molto sicuro).

    Ma quello che mi stavi cercando di farmi notare è come l’oggetto in sè sia immanente, abbia una esistenza indubitabile. Sono i due atteggiamenti, naturale e fenomenologico, dai quali dipende la trascendenza. Dal punto di vista naturale io percepisco la molteplicità delle manifestazioni dell’oggetto, dovute alle infinite prospettive con cui esso mi si presenta. Mentre, come hai detto tu, essendo l’atteggiamento fenomenologico contingente ogni nuova percezione avrà anch’essa a che fare con prospettive differenti.

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  5. Quello che hai scritto è molto corretto. L’oggetto è di per sé immanente e percepibile empiricamente. Messa da parte la causalità e la visione meccanicistica del Mondo, passiamo all’atteggiamento fenomenologico.
    Interessante la chiave di lettura “epistemologica” circa l’attesa. Husserl tratta molto la ritenzione e l’empatia e, in “tono minore”, l’attesa fenomenologica. Ritengo impossibile non parlare di trascendenza nei riguardi dell’atteggiamento fenomenologico… considerare ogni esperienza come una attesa potrebbe portarci ad interpretare la riduzione stessa alla stregua di una forma di attesa? Una attesa che travalica spazio e tempo e che conduce alla percezione della contingenza come forma pura dell’esperienza?

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