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In osservanza ai principi fondanti la pratica deista, secondo Shaftesbury la morale anticipa, è antecedente e legittima il fondamento religioso, motivo per il quale possiamo sostenere come siano i principi morali a “formare” e “plasmare” Dio e non viceversa. Quella dell’Altissimo va assumendo una dimensione prettamente umana; è propriamente in questo che consiste il Dio “buono e giusto” dei deisti. I principi costituenti la virtù morale divengono gli elementi che ontologicamente vanno descrivendo Dio, facendo del medesimo il riferimento per qualsivoglia condotta retta e compassionevole. I precetti religiosi, fondanti la secolarizzazione del Credo e dalla stessa continuamente legittimati nel corso del tempo, vengono, quindi, messi da parte.
Per sostenere tale eterodossia, risulta – filosoficamente – necessario affidarsi a verità prime, ovvero a considerazioni apodittiche, ritenute essere del tutto aprioriche e tali da consentire, per l’appunto, la disquisizione di cui sopra:
Dobbiamo convincerci prima di tutto che Dio è buono e non può ingannarci: senza questo, non può esserci vera fede religiosa o fiducia in Dio. Ora, se vi è davvero qualcosa che precede la rivelazione, qualche antecedente dimostrazione della ragione che ci dimostra che Dio esiste e, per di più, che è così buono da non ingannarci, la ragione stessa, se confidiamo in essa, ci dimostrerà che Dio è così buono da superare in bontà il migliore tra noi. In tal modo nessun terrore o sospetto potrà essere per noi fonte di preoccupazione, poiché soltanto la cattiveria, e non la bontà, può farci paura.
Secondo Shaftesbury, la Ragione mediante la propria funzione di “filtro” operata nei riguardi della morale, riesce ad individuare e a definire quei valori verso i quali si devono rivolgere tanto i comportamenti individuali quanto quelli collettivi, al fine di perseguire la pacifica convivenza sociale di cui abbiamo già molte volte parlato. La definizione ontologica di Dio è conseguente a tutto questo: una volta dimostrata l’esistenza e la natura benevola dell’Altissimo facendo appello all’uso “illuminato” della Ragione, Dio stesso finisce con l’incarnare l’essenza medesima di quelle virtù costituenti la morale umana:
Sarebbe comunque diverso se si pensasse alla divinità nello stesso modo benevolo con cui si pensa all’umanità, e se ci convincessimo a credere che, se Dio esistesse davvero, la somma bontà dovrebbe senz’altro appartenergli, senza alcuno di quei difetti dovuti alla passione, senza quelle meschinità e imperfezioni che riconosciamo come tali in noi stessi e che come uomini buoni ci sforziamo, per quanto possiamo, di superare, e che quotidianamente vinciamo, diventando migliori.
La “morale simpatetica e del sentimento” di Shaftesbury trova nella eterodossia deista un (indubbio ed) equilibrato completamento filosofico. L’attenzione, infatti, risulta essere sempre perennemente rivolta nei riguardi dell’uomo, verso cui Shaftesbury non nutre alcun dubbio circa la bontà dello Stato di Natura – cfr. Hobbes -. La Ragione “veicola” la morale a comprendere come sia necessario “farsi educare al Bello ed al Buono” per essere liberi e per poter condurre una pacifica convivenza all’interno della società. A tale fine, Shaftesbury evidenza come una rilevante funzione sociale di “educazione” ed “aggregazione” debba venire ascritta anche alla religione strincto sensu – ma non ad una ortodossia secolarizzata, restrittiva ed intollerante! -. Fondamentale resta, dunque, il fatto che il punto di vista non si discosti mai dall’uomo e dalla sua morale. Ragione per la quale la religione non può prescindere dalla irrinunciabile necessarietà che qui segue:
Io ritengo, Signore, che sarebbe un bene per noi se, prima di elevarci alle somme regioni della divinità, ci degnassimo di discendere un poco dentro noi stessi, e dedicassimo qualche modesta riflessione alla semplice e modesta morale. Una volta che avremo guardato in noi stessi e avremo compreso la natura delle nostre affezioni, probabilmente saremo migliori della divinità di una data natura e potremo capire meglio quali affezioni siano adatte o inadatte a un essere perfetto. Potremo capire come amare e pregare, quando avremo acquisito un’idea consistente di ciò che è lodevole e amabile. Altrimenti rischiamo di riservare scarso onore a Dio, proprio quando intendiamo onorarlo di più. Infatti è difficile immaginare quale onore possa derivare a Dio dalle preghiere di creature incapaci di discernere cosa sia degno di lode, o eccellente, per loro stesse.
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