IL RAPPORTO TRA ETICA ED ESTETICA IN SHAFTESBURY.


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Abbiamo sostenuto che:

  • il “bello”, inteso come “bene morale”, è per l’anima dell’uomo un godimento immediato, spontaneo e disinteressato;
  • il “bello”, inteso come “bene morale”, necessita di un giudizio di approvazione spontaneo ed immediato, che risulta essere comune a tutti gli uomini.

Ma questo “bello”, così fondamentale per la comprensione e la definizione medesima dell’etica shaftesburyana, come può definirsi in chiave meramente estetica? O, per essere ancora più diretti, che ruolo ricopre quest’ultima, all’interno del pensiero di Shaftesbury?

Innanzitutto, quando Shaftesbury parla di “bello”, egli tenta di estraniarsi da qualsivoglia riferimento di natura prettamente empirica. Il “bello” non è da intendersi come “godimento sensoriale di ciò che aggrada”, ovvero la definizione di “ciò che è bello” non è determinata da una associazione di sensazioni sensibili. La riflessione, semmai, assume caratteri maggiormente idealisti, legati cioè alla “produzione del bello”, ovvero a ciò che la creatività umana realizza in seno a ciò che risulta essere (artisticamente) bello. Qui, la riflessione sull’arte lato sensu veicola il filosofo a considerare il “bello” non come “mera e meccanica riproduzione della natura” – in quanto l’arte medesima, per Shaftesbury, non deve assolutamente ridursi a ciò -, quanto, piuttosto, come risultato dell’immaginazione umana. L’arte, infatti, è:

  • un’attività creatrice spontanea, pari all’attività creatrice spontanea di Dio;
  • un’attività della ragione, sebbene non si identifichi con essa;
  • pur non essendo mera imitazione della natura, è un’attività paragonabile a quella che genera la natura.

Il “piacere estetico”, quindi, al pari del “piacere morale”, ha una dimensione profondamente spirituale. Per questa ragione il “bello” risulta essere spontaneo, immediato e disinteressato. Quindi, se anche il piacere può essere ascritto al senso per essere goduto, la legittimazione ontologica dello stesso non è di natura empirica. Shaftesbury, infatti, sostiene come il “bello” sia da considerarsi un oggetto dell’anima. I “piaceri naturali” – del gusto, del tatto e via discorrendo… quelli cioè legati meramente alla percezione sensoriale – non sono da condannare. Sono piaceri sensibili. Naturali. Comuni agli animali. Ma di per sé non possono permettere quel piacere “contemplativo” che soltanto la dimensione spirituale può garantire – cfr. Schopenhauer -. Anche in questo consiste la identificazione tra il “bello” ed il “buono” – i fondamenti della morale shaftesburyana -.

Di conseguenza, riallacciandosi a quanto detto poc’anzi sull’arte, la stessa non può che essere espressione di sentimenti, ovvero spontanea, immediata e disinteressata contemplazione del “bello”. Quest’ultimo ha un fondamento spirituale. Ragione per cui la bellezza – al pari della bontà – deve, per forza di cose, possedere una legittimazione di natura morale.

Risulta, tuttavia, difficile stabilire con assoluta chiarezza che tipo di rapporto sussista tra il “bello” ed il “buono”. Da una parte, infatti, possiamo sostenere come Shaftesbury non sia un utilitarista; non è, infatti, “buono ciò che piace” e, quindi, non abbiamo una riduzione del “buono” al “bello”. Semmai il contrario. Il fatto che la bellezza sia una questione morale, dato che necessita di una dimensione spirituale per definirsi, potrebbe – magari – farci pensare come in realtà sia il “bello” ed il “piacevole” a ridursi al “buono”. Ma la posizione del filosofo, come detto, non è del tutto nitida:

[…] quello che è bello e armonioso e proporzionato è vero; e quello che è nel medesimo tempo bello e vero è di conseguenza piacevole e buono.

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