NOZIONI DI METAFISICA NEL PENSIERO SHAFTESBURYANO?


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Shaftesbury resta un metafisico? No. O, almeno, non strincto sensu come può essere, ad esempio, Leibniz. Ma, senza un impianto metafisico “adeguato”, come può reggersi la sua morale? O, per essere ancora più diretti, privo di una concezione “naturalmente buona” dell’Universo, come potrebbe mai egli legittimare i riscontri ottimistici del suo pensiero morale? Vediamo di fare chiarezza in quella dinamica concettuale che resta “non (totalmente) conclusiva” all’interno della riflessione shaftesburyana.

Partiamo intanto dal presupposto secondo cui la metafisica di Shaftesbury debba – necessariamente – essere intesa non alla stregua di vera e pura ontologia quanto, piuttosto, adornata da congetture inerenti la cosmologia e la teologia naturale. I presupposti fondamentali dell’intera disquisizione possono venire riassunti nel modo seguente:

  • “l’uomo è fondamentalmente un essere ragionevole, ovvero dotato di ragione”;
  • “l’umo è fondamentalmente (sempre) riconducibile ed ascrivibile ad una unità personale”;
  • “l’uomo è fondamentalmente libero”.

Procediamo con l’analizzare in ordine i tre punti sopracitati.

La ragione, intesa come capacità cognitiva/intellettiva/critica, è una prerogativa dell’uomo ed è ciò che lo contraddistingue dagli altri animali. In Shaftesbury, inoltre, come abbiamo già avuto modo di constatare, essa svolge una fondamentale funzione di “filtro” ed “analisi”, tanto da veicolare il filosofo a porla al di sopra sia del suo senso morale – il Buono – sia del suo senso estetico – il Bello -. La prerogativa dell’uomo è la ragione poiché la Natura, nel distribuire forze e debolezze, non si è mostrata prodiga con alcuna creatura. Shaftesbury, infatti, è convinto che la superiorità dell’uomo sugli altri animali derivi proprio dalla sua stessa debolezza (fisica): la Natura ha posto l’uomo nella condizione di doversi servire del proprio intelletto per affermarsi, veicolandolo a rinunciare agli istinti e agli appetiti ascrivibili, invece, agli animali.

Per quanto concerne, invece, il concetto di “unità personale”, ebbene esso resta, nel pensiero shaftesburyano, «il trascendentale che ha più presente». Un albero, ad esempio, resta sempre un albero, ovvero “questo albero”, ed è irriproducibile in alcun modo. È altrettanto vero che tra gli alberi, compreso “questo albero”, vi è una “natura comunemente condivisa” dalla quale tutti discendono, ovvero l’idea universale di “Albero” – cfr. Platone -. Shaftesbury sostiene inoltre come «tutte le nature non devono dipendere nella loro esistenza che da quella natura dalla quale tutto dipende», quasi a voler sottolineare come ciò che dà significato all’esistenza non sia tanto la materia – cfr. Cartesio – quanto, piuttosto, la forma. Essa, nell’uomo, è da identificarsi con l’anima.

Infine, l’idea di libertà in Shaftesbury, ha – innegabilmente – una legittimazione più morale che meramente metafisica. Non si tratta tanto di disquisire intorno a cosa sia il Bene e il Male e in base a cosa l’uomo possa ritenersi libero di scegliere. L’uomo è libero poiché moralmente libero e, quindi, incline a comportarsi secondo natura, in assonanza a “ciò che è buono” e a “ciò che è bello”. In sintesi: la libertà è la capacità di optare per il bene poiché la libertà stessa è virtù. Ovviamente, rigirando il punto di vista, l’uomo resta libero fintanto che coltiva questa virtù, ovvero fintanto che coltiva tale libertà (morale) interiore. Giungere ad affermare che non si è liberi se non si è virtuosi, ovvero se non si è inclini al Bene e al Bello, resta un concetto meraviglioso e attorno al quale invito tutti a riflettere.

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