LA RELIGIONE “VERA” DI SHAFTESBURY.


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Il presupposto di partenza per cercare di comprendere il rapporto tra Shaftesbury e la religione è il seguente: il “libero uso” della ragione non potrà mai nuocere alla “religione vera”. Da una parte, quindi, abbiamo nuovamente tra le mani la Ragione che, come abbiamo visto, è il fondamentale filtro per il comportarsi moralmente secondo natura. Dall’altra parte, invece, dobbiamo cercare di comprendere cosa il filosofo intenda per “religione vera”.

Possiamo, intanto, sostenere che dato che per Shaftesbury tutto è secondo natura, o meglio, per essere ancora più precisi, ciò che è secondo natura è “buono” e “bello”, allora anche la religione vera – cioè quella “buona” e “bella” – dovrà per forza di cose essere “naturale” e, quindi, capace di reggere il filtro incondizionato della ragione. Dunque, per tirare le somme: la religione “vera” è la religione naturale filtrata dalla ragione. E questo è già un punto di arrivo fondamentale per Shaftesbury in quanto, per il filosofo, una religione positiva vale l’altra, a patto che venga professata secondo natura e ragionevolmente. Non serve definire quale sia la religione da seguire quanto, piuttosto, il comprendere come ogni religione, per essere “vera”, debba possedere un fondamento naturale e, quindi, di conseguenza, morale e razionale.

Se volessimo, per davvero, semplificare l’intera questione – tentativo sempre molto “ingiusto” ed “azzardato” in filosofia -, potremmo sostenere come per Shaftesbury sia importante solo e soltanto una cosa in ambito religioso: la religione deve essere buona. Essa deve essere bella. Essa deve suscitare entusiasmo. Tutto ciò per una ragione estremamente semplice: queste, invero, restano le dinamiche fondanti la morale naturale. Non può venire riconosciuta essere “vera” la religione che osteggia ciò che l’uomo naturalmente “è” e ciò che l’uomo naturalmente “compie” negli altri settori della propria esistenza. In ambito religioso, la ragione svolge esattamente la stessa identica funzione assegnatale in ambito morale ed etico. E lo stesso vale per tutte le altre dinamiche concettuali che, fino a questo momento, abbiamo avuto modo d’incontrare.

Come interpretare, dunque, le posizioni di Shaftesbury che, innegabilmente, sembra muoversi tra una specie di “scetticismo buono” e di “deismo moderato”?

Lo scetticismo “buono” per il filosofo inglese è da intendersi alla stregua di una concreta e convinta opposizione al dogmatismo razionale. Giusto è, da una parte, sostiene Shaftesbury, promuovere il ruolo della Ragione (anche) in ambito religioso ma doveroso resta, dall’altra parte, evitare che la stessa si dogmatizzi e che di essa venga fatto un uso “estremo”. In sintesi: non serve che la razionalità interpreti, giudichi o – peggio ancora – indichi quale sia la religione da seguire. Al contrario. La ragione deve solo servire affinché, (anche) in seno alla propria spiritualità, ciascuno uomo possa essere agevolato nel muoversi secondo natura. Per Shaftesbury, inoltre, non esiste niente di più naturale dello scetticismo dato che la stessa fede altro non è se non una specie di “scetticismo passivo”, tramite il quale il credente esorta sé stesso a non esaminare, fin troppo a fondo, la credenza che, in cuor suo, egli stesso teme di non comprendere appieno – perché il razionalizzarla, dunque? -:

[…] la fede stessa implicita, anche la più forte, non è in realtà che una specie di scetticismo passivo, una risoluzione di non esaminare o il meditare che il meno possibile una credenza che si teme di perdere dopo averla adottata.

Vi sono, certamente, forti rimandi al deismo, all’interno della interpretazione che Shaftesbury elargisce circa la religione lato sensu. Il fatto stesso che la credenza debba “sottostare” al filtro della Ragione è un concetto dai forti contenuti illuministici, se vogliamo. Ma il timore del filosofo inglese è che una apologia estrema della razionalità possa rendere la stessa profondamente dogmatica e portare, dunque, tanto all’intolleranza quanto al fanatismo. Il fondamento naturale della morale, ovvero “l’esser bello” e “l’esser buono” secondo le immediate inclinazioni naturali del sentimento e del sentire, restano dannatamente aprioriche nel pensiero shaftesburyano. Sempre.

Il rapporto tra religione e morale è ulteriormente approfondito all’interno del Saggio sulla virtù e il merito (1711), ove il filosofo si concentra attorno ad una dinamica concettuale ben precisa: la virtù. Che rapporti sussistono de facto tra la stessa e la religione?

Esistono, sostiene Shaftesbury, persone religiose che peccano di moralità e, al contempo, persone atee che praticano la morale. Dunque? A tutti quanti noi, afferma il filosofo, interessa di più sapere se una persona sia moralmente virtuosa piuttosto che credente o meno – quasi a voler sottolineare una “anticipazione” della morale sulla religione -. Resta, ad ogni modo, difficile convincere un ateo dell’esistenza di Dio e della importanza del Credo. Esattamente, come può risultare problematico cercare di far comprendere ad un religioso che esistono rette virtù al di fuori della sua credenza. Serve equilibrio. E questo può essere raggiunto garantendo tanto alla morale quanto alla religione i propri diritti. Ma attorno a cosa verte questa simmetria tra morale e religione? O, per essere più diretti e prestando attenzione a quanto sostenuto poco sopra: perché mai dovremmo più “preoccuparci” di una persona priva di morale rispetto ad una persona non credente? Esiste, quindi, per davvero, una posizione a priori della morale sulla religione?

Il fatto è che Shaftesbury resta profondamente convinto di una cosa: un ateismo viziato e deviato non potrà mai condurre ad un errato senso di giustizia. Deriva alla quale, al contrario, può portare una religione corrotta, dogmatica e superstiziosa. In questa sua convinzione, Shaftesbury rimane figlio dei suoi tempi, ovviamente. Questo cosa significa? Ebbene questa sua certezza filosofica ci porta ad affermare come il dissidio e l’asimmetria tra religione e morale sorga solo tra “religione negativa” e morale e non tra “religione vera” e morale. Quindi la morale è apriorica alla religione? Oppure ne è il fondamento? Oppure ancora, la religione si riduce alla morale? O ne è forse l’equivalente? Potremmo, per davvero, pensare e sostenere, in special modo, quest’ultima tesi, anche perché la “religione naturale” di Shaftesbury è da intendersi come conforme alle leggi poste da Dio sulla Natura; la morale stessa ha, quindi, un carattere altamente religioso, ove primeggia la fede in un ordine universale divino che, per l’appunto, è lo specchio dell’ordine impartito da Dio alla Natura. Il muoversi moralmente “secondo natura” deve essere interpretato anche sotto questa visione. Quando, quindi, si parla di “religione naturale”, essa non necessita di essere distinta dalla morale lato sensu. Si tratta di una morale religiosa, ove la religione medesima è in funzione della moralità. Il passo di Lucia Zani è profondamente esaustivo a tal riguardo:

[…] egli non è ateo, anzi combatte l’ateismo, come innaturale e perfino insincero, però la morale sta avanti alla religione, in quanto essa stessa, quand’è coltivata coscientemente è religione, e religione più vera di tante forme di religioni fanatiche e superstiziose che egli teme più dell’ateismo, in quanto, come dicevo, distruggono il senso della giustizia, più dell’ateismo stesso.

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