Henri-Benjamin Constant de Rebecque (1767-1830) continua ad esser tutt’oggi conosciuto soprattutto per l’opera De la liberté des Anciens comparée à celle des Modernes (1819). La libertà degli Antichi paragonata a quella dei Moderni – saggio che può essere considerato anche come una specie di vero e proprio pamphlet dell’epoca – resta, difatti, un vero e proprio caposaldo letterario-filosofico per la comprensione e l’indagine gnoseologica in seno al concetto di “libertà” strincto sensu.
L’opera di Constant si sviluppa sulla base di una dicotomia concettuale tra la concezione – negativa – della libertà al tempo degli antichi – con chiaro riferimento alla repubblica romana – e quella – positiva – dei moderni, nei confronti della quale il filosofo (di origini svizzere), contemplando i traguardi politici raggiunti in Inghilterra, augura ed auspica una svolta liberale e costituzionale a favore della monarchia di Francia. Non per nulla, Constant fu politico ed accorto oratore; impegnato attivamente nelle questioni concernenti la res publica e membro dell’allora Assemblea Nazionale – il vecchio Terzo Stato riunitosi e proclamatosi in tal modo a Versailles nel 1789 -.
La libertà degli antichi è per Constant una libertà che non contempla gli interessi particolaristici e/o individualistici dei membri della comunità. Si tratta di un concetto di libertà che ben si presta a società che non si costituiscono di una profondità strutturale ampia e articolata, e nelle quali la partecipazione alla discussione dei temi di pubblico interesse è sentita alla stregua di un dovere morale da parte della cittadinanza – si pensi ai plebisciti romani, ad esempio, ed al ruolo dei tribuni -. Ma si tratta di una libertà che si costituisce di sfaccettature alquanto negative, dato che queste società sono per lo più bellicose e fondate su di un’economia schiavista. E per due ragioni di fondo, del resto. In primis, la negazione degli interessi e dei diritti particolaristici ed individualistici deriva dal fatto che quest’ultimi vengano assoggettati, sempre e comunque, al perseguimento dell’interesse pubblico e collettivo di primario dominio: ovvero la difesa della patria e, quindi, dei confini nazionali. Da questo ne deriva, consequenzialmente, la fisionomia bellicosa ed espansionistica che caratterizza la nazione medesima. In secundis, la partecipazione alle questioni concernenti la res publica è garantita e giustificata dal fatto che l’enorme mole di schiavi permette alla cittadinanza di dedicarsi più attivamente alla vita pubblica e politica, trascurando molte tipologie ordinarie di mansioni ed attività.
Alla libertà degli antichi, Constant contrappone quella dei moderni; una libertà diffusa nei paesi industrializzati, permeati sia dal liberismo economico teorizzato da Adam Smith sia dal liberalismo politico di John Locke. Difatti, le società, all’interno delle quali si può apprezzare l’affermazione di tale libertà positiva, sono società non più fondate sulla schiavitù ma, bensì, sul commercio e sul libero mercato. In tali contesti nazionali, lo Stato deve svolgere tutta una serie d’interventi e d’ingerenze per monitorare la politica e l’economia – ma nel pieno rispetto dei valori liberisti e liberali -, obbligando, di conseguenza, la popolazione a subire delle restrizioni in seno alla libera partecipazione alla vita politica del paese. Ma quella che può apparire come una coercizione, in realtà, non lo è, perché le società, basate sul libero scambio, garantiscono il perseguimento di interessi individualistici tramite la rappresentanza politica. Invece di legittimare una partecipazione diretta alla res publica, si consente al singolo di perseguire i propri interessi in ambito economico, delegando gran parte delle questioni di pubblico interesse e dominio a dei propri rappresentanti politici che facciano gli interessi delle classi sociali rappresentanti i loro stessi mandatari. Si tratta, dunque, della svolta parlamentare, con riferimento specifico alla Monarchia Costituzionale ed alla rappresentatività politica.
Ma la visione del costituzionalismo monarchico di Constant non si limita solo ad auspicare in terra di Francia il verificarsi dell’esperienza politica inglese; al contrario, sotto molti punti di vista, il filosofo svizzero sorpassa il paradigma politico anglosassone. Nella visione di Constant il Re «regna ma non governa», nel senso che vi è una differenza sia concettuale che pragmaticamente politica ed istituzionale tra l’essere il Capo dello Stato e l’essere il garante dell’esercizio del Potere Esecutivo. Quest’ultimo, stando a quanto sostiene il filosofo svizzero, deve appartenere ad un Gabinetto o ad un Consiglio dei Ministri, nominato dal Re, ma responsabile solo dinanzi all’organo parlamentare. Sono, dunque, in prima battuta i Ministri ad esser responsabili de facto delle attività politiche poste in essere, e non il monarca. Si tratta di una serie di riflessioni particolarmente moderne per l’epoca, persino per la tanto avanzata – in termini politici – Inghilterra.
Benjamin Constant resta, a mio modo di vedere, un personaggio trascurato nell’ambito dello studio e delle ricerche accademiche e letterarie. Eppure il suo contributo culturale è profondamente illuminante, sul piano sia concettuale che pragmatico, considerando anche le critiche rivolte nei riguardi dell’esperienza giacobina e napoleonica. Purtroppo, appartiene ad una folta schiera d’intellettuali – De Tocqueville, Dumarsais, Babeuf, Sieyès et similia – che sono stati, in parte, oscurati dai “giganti” dell’epoca, che rispondono ai nomi dei vari Montesquieu, Diderot, Rousseau e Voltaire – tanto per citarne alcuni -.
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