NUOVA FAMIGLIA, STESSA FAMIGLIA?


La Costituzione della Repubblica Italiana tratta il tema della famiglia, specificatamente, all’interno del Titolo II, in seno ai cosiddetti Rapporti Etico-Sociali, negli art. 29, 30 e 31. Essi affermano testualmente quanto segue:

Art. 29

La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.

Art. 30

E’ dovere e diritto dei genitori, mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità.

Art. 31

La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità e l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.

L’ossimoro «società naturale fondata sul matrimonio» ha una precisa valenza storica. Partiamo col sostenere che trattasi di un’evidente idiosincrasia concettuale: come può un’organizzazione sistemica naturale – come la famiglia – trarre giustificazione da un apparato fittizio ed artificiale – il matrimonio, per l’appunto -? La logica, dunque, ci impone di accettare un’unica soluzione possibile: per non cadere in un paradosso, dobbiamo, quindi, accogliere il fatto che il matrimonio sia solo una delle tante possibili “forme” e/o “fisionomie” adottabili da un qualsivoglia contesto familiare. Questo contrasto di vedute ha forti radici storiche. L’espressione «società naturale» venne formulata, ai tempi dell’Assemblea Costituente, da Palmiro Togliatti, il quale, in netta opposizione con la parte più marcatamente cattolica che componeva i 77 costituenti, volle enfatizzare come il nucleo familiare dovesse essere un qualcosa di assolutamente inviolabile e non accessibile ad alcuna forma d’ingerenza ed inferenza statale – pesava ancora moltissimo in materia, per ovvie ragioni, l’esperienza subita durante il ventennio fascista -. Chiusa questa breve parentesi storica, soffermiamoci sul momento attuale.

Le disposizioni costituzionali sul tema della famiglia rimandano, ovviamente, alla legge ordinaria. Nel senso cioè che è la legislazione ordinaria, tramite l’attività parlamentare, a modificarne (o meno) il contenuto. Ancora una volta, un approccio dettato dal buon senso e dalla logica possono esserci di grande aiuto. Perché se è vero che la legge debba continuamente adeguarsi ai cambiamenti sociali, politici e culturali dei cittadini che vivono all’interno di un preciso Stato di Diritto, è allora altrettanto vero che, nel caso si verificassero mutamenti ideologici e/o valoriali sul tema della famiglia strincto sensu, la stessa legge dovrà modificarsi de facto, imponendo, di conseguenza, tale mutamento anche all’interpretazione del dettato costituzionale medesimo.

La Corte Costituzionale, soffermando l’attenzione proprio sull’art. 29, ha evidenziato più volte in passato come dignità e protezione debbano essere riconosciute anche a tutte le forme “alternative” di famiglia; anche a quelle cioè non espressamente – e giuridicamente – sancite da un contratto matrimoniale – perché è pur sempre doveroso ricordare come il matrimonio resti, dinanzi agli occhi dello Stato, un mero contratto stipulato tra due contraenti -. Fino ad oggi, quindi, era lecito chiedersi il perché di tanto ritardo. Perché il legislatore tardasse – o rinviasse sulla base di accorgimenti e tatticismi politici – a porre in essere norme finalizzate ad un pieno riconoscimento giuridico di tale “diversità”. Non che non vi siano stati dei tentativi: annoveriamo tra di essi i PACS (Patti Civile di Solidarietà), i DICO (Diritti e Doveri delle Persone Conviventi), i CUS (Contratti di Unione Solidale) ed i DIDORE (Diritti e Doveri di Reciprocità dei Conviventi). Il fatto è che si sono rivelati tutti quanti, più o meno, di una inutilità indubbia.

Con l’approvazione definitiva del ddl Cirinnà, il quadro costituzionale subisce, fin da subito, un concreto e pragmatico cambiamento. Ecco i punti principali e maggiormente incisivi della nuova legge in tema di famiglia costituzionalmente riconosciuta:

Costituzione dell’Unione Civile: come il matrimonio, l’unione civile si costituisce di fronte all’ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni. L’atto viene registrato nell’archivio dello stato civile.

Cognome: le parti, per la durata dell’unione civile, possono stabilire di assumere un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome.

Obblighi Reciproci: dall’unione deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Non c’e’ obbligo di fedeltà, come nel matrimonio. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacita’ di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni.

Vita Familiare: Le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato.

Regime Patrimoniale: il regime ordinario e’ la comunione dei beni, a meno che le parti pattuiscano una diversa convenzione patrimoniale. I conviventi “possono” comunque sottoscrivere un contratto che regoli i rapporti patrimoniali – che può prevedere anche la comunione dei beni -.

Pensione, Eredità e TFR: questa e’ la parte della legge che danneggia maggiormente un eventuale figlio di uno dei due partners. Difatti, con la nuova legge la pensione di reversibilità e il TFR maturato spettano al partner dell’unione. Per la successione valgono le norme in vigore per il matrimoni: al partner superstite tocca sempre la “legittima” – cioè il 50% – mentre il restante spetta agli eventuali figli.

Scioglimento dell’Unione: si applicano le norme della legge sul divorzio del 1970, ma non sarà obbligatorio, come nello scioglimento del matrimonio, il periodo di separazione.

Adozioni: come ben noto, le norme sulla tanto discussa stepchild adoption sono state stralciate. Nel maxi-emendamento e’ stata inserita la seguente dicitura: «[…] resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozioni dalle norme vigenti», il che significa che viene delegato ai singoli Tribunali la discrezionalità di scegliere, per via giurisprudenziale, se concedere o meno la stepchild adoption ai singoli casi concreti posti ad esame.

Convivenze di Fatto: le “convivenze di fatto” riconosciute sono quelle tra «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile».

Casa: in caso di morte di uno dei partner, l’altro ha diritto di subentrare nel contratto di locazione. Se il deceduto e’ proprietario della casa, il convivente superstite ha diritto di continuare a vivere in quella abitazione tra i due e i cinque anni, a seconda della durata della convivenza. La “convivenza di fatto” ha titolo, al pari del matrimonio, per essere inserito nelle graduatorie per le case popolari.

Alimenti: in caso di cessazione della convivenza, «il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento». Gli alimenti sono assegnati in proporzione alla durata della convivenza.

Letti questi punti fondanti la main issue dell’intero impianto normativo posto ora in essere, sorgono alcuni dubbi e perplessità circa la “completezza” ed “idoneità” della legge medesima. Soprattutto per quanto concerne l’applicabilità alle unioni civili del codice penale. Il testo di legge redatto dall’onorevole Cirinnà si fonda su di una premessa ben chiara ed esplicita: «le disposizioni che contengono la parola “coniuge” si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, ma al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile». In poche parole: ciò che è giuridicamente riconosciuto, in tema di diritti e doveri, al coniuge è riversato a favore di ognuno dei due partners legati da un’unione civile ma – questo è il punto – con la premessa che tale riconoscimento sia sempre e solo giustificato da ciò che regola l’unione civile stessa. In poche parole, si tratta di trapiantare un sistema di diritti e doveri su di un piano regolatore distinto e differente da quello che ne aveva legittimato la sua stessa produzione: il matrimonio, per l’appunto. L’equiparazione, dunque, è alquanto contorta proprio perché pare non si siano ben visualizzati i due piani distinti della giurisprudenza. Stando a quanto sostiene Luigi Ferrarrella, gli effetti “negativi” di tale legge – che obbligheranno anche il legislatore a correre ai ripari nel breve-medio periodo – sono particolarmente evidenti:

Il riflesso più evidente è sull’omicidio, la cui pena base 21-24 anni sale a 24-30 anni se si uccide il coniuge: ma poiché l’omicidio non è certo norma a rafforzamento «degli obblighi derivanti dall’unione civile», l’aggravante non potrà pesare su assassini legati da unioni civili alla persona assassinata, mentre continuerà a valere per mariti e mogli. Stesso schema nei sequestri di persona: quando il pm blocca i beni utilizzabili dal coniuge per pagare il riscatto, il blocco non potrebbe essere imposto al coniuge legato da unione civile con il rapito.

Curiosa anche la situazione dell’abuso d’ufficio commesso da pubblici ufficiali che non si astengano in presenza di un interesse di un prossimo congiunto come il coniuge: continuerà a essere reato per mariti e mogli, ma non potrà incriminare i partners di una unione civile. Idem la bigamia, che finirebbe per non avere rilevanza penale in relazione alle unioni civili tra lo stesso sesso, mentre la manterrebbe solo tra coniugi uomo e donna.

Discriminazioni al contrario, cioè più sfavorevoli per le unioni civili, parrebbero crearsi per tutta una serie di condizioni che il codice continuerebbe a concedere solo a marito e moglie: la non punibilità per chi fa falsa testimonianza, mente al pm o compie favoreggiamento personale del prossimo congiunto; la non punibilità di chi a favore di un prossimo congiunto commette reato di assistenza ai partecipi di associazioni per delinquere o con finalità di terrorismo; la non punibilità del furto o della truffa ai danni del partner non legalmente separato. E qualche paradosso si creerebbe anche nei tribunali, dove oggi un giudice deve astenersi se il coniuge fa il pm o è persona offesa dal reato: sbarramenti che non varrebbero per partners dello stesso sesso legati da unioni civili. Il fatto poi che «l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione» sia stabilito dalla nuova legge solo per le unioni civili e non anche per le convivenze di fatto, discriminerà i partners della prima categoria che, diversamente da quelli della seconda, nel penale rischieranno l’accusa di omicidio o lesioni personali per l’eventuale medesima condotta di «mancata prestazione di cure o di alimentazione».

Ritengo, quindi – e badate bene che questa è una mia personalissima opinione -, che molto di più potesse esser fatto e che ci troviamo, ancora una volta, dinanzi alla classica “cosa all’italiana riuscita a metà “, dove gli opportunismi, i tatticismi e le ingerenze hanno finito col viziare la legislazione ed impedito al nostro Stato di Diritto di fare quel doveroso balzo in avanti che avrebbe già dovuto compiere da almeno un decennio. Ho trovato particolarmente illuminante anche l’articolo della giornalista Vittoria Patanè, il cui incipit iniziale mi trova profondamente concorde con quanto da lei sostenuto:

Non è una legge all’avanguardia, non è una legge equilibrata, non è una legge che garantisce eguali diritti tra tutti i cittadini dello Stato. Ma sì, in un certo senso è una legge storica che estende a molti italiani quelle tutele che fino a ieri rappresentavano illegittimamente un’utopia. È un primo passo ed è importante, fosse solo per i decenni di ritardo con cui è arrivata. Dopo la pubblicazione dell’ormai celeberrimo ddl Cirinnà in Gazzetta Ufficiale, le coppie omosessuali non potranno sposarsi, ma potranno unirsi civilmente avendo così accesso a quasi tutti i diritti garantiti e ai doveri imposti al matrimonio.

Qual è la differenza dunque? La differenza risiede in primis nella mancata volontà del legislatore di voler equiparare i due istituti, nella rimarcata intenzione dei nostri politici di sottolineare all’interno del testo che c’è una diversità, che non sono la stessa cosa, che il matrimonio rimarrà appannaggio della famiglia “tradizionale” e dei vari Gandolfini che promettono ripercussioni in vista del referendum costituzionale, dimostrando palesemente tutta la vacuità delle loro rimostranze. Se così non fosse, una materia tanto importante non verrebbe sminuita a suon di ripicche e minacce politiche più o meno (molto meno) velate. Più marcate, in questo caso giustamente, le difformità con la convivenza di fatto, vista come una forma di relazione “attenuata” (dal punto di vista legislativo e patrimoniale ovviamente) rispetto alle prime due.

Detto questo, in Italia, si sa, non possiamo mai farci mancare niente. E, difatti, è bastato attendere pochissime ore dall’approvazione definitiva della legge Cirinnà che si è potuto assistere all’ennesima ed immancabile lotta faziosa e pseudo-politica tra i favorevoli al testo di legge – “capeggiati” dall’hashtag #promessamantenuta – e l’enorme mole cattolica – o dichiaratesi tale – che, fin da subito, ha inveito con dichiarazioni del tipo «invitiamo i sindaci del nostro partito a boicottare nelle sedi locali tale normativa», «chiederemo l’indizione di un referendum abrogativo», et similia.

Vi sono stati anche casi talmente estremi che – mi azzarderei a sostenere – hanno suscitato, al contempo, ilarità e sgomento. Come quello del parroco del comune di Carovilli, in provincia di Isernia, nel Molise; Don Mario Fangio, in palese disaccordo con quanto avvenuto a Roma poche ore prima, dopo aver appeso una specie di pamphlet improvvisato sul portone della canonica, ha fatto suonare a lutto le campane della chiesa per quasi tutta la giornata.

Parroco Carovilli #01

Ma, personalmente, sono state le dichiarazioni del portavoce del Family DayMassimo Gandolfini, ad avermi lasciato profondamente basito. Ne riporto, testualmente, uno stralcio:

Ce ne ricorderemo. E ci ricorderemo del premier in particolare. […] Ce ne ricorderemo, visto che non noi ma lui ha legato il suo futuro politico al referendum sulle riforme. E quella è una bella data in cui ci ricorderemo chi ci ha offeso in maniera arrogante e proterva. […] Il maxi-emendamento su cui il governo si appresta a porre la fiducia è frutto di una strategia antidemocratica e di una cultura menzognera. Il popolo del Family Day non si riconosce in esso e constata irritato che si è rimasti sordi alle sue richieste. […] Questo popolo, che sta trasformando delusione e amarezza in vera e propria rabbia, di sicuro prenderà i provvedimenti necessari per presentare il conto a chi di questo popolo si è totalmente fatto beffa. […] Già con arroganza si era sottratto il testo del ddl Cirinnà alla Commissione Giustizia, violando l’art. 72 della Costituzione. Ora si aggiunge la beffa dell’imbavagliare ogni voce di dissenso, ponendo la questione di fiducia. Come se non bastasse, si ha la malafede di affermare che si tratta di un provvedimento urgente, richiesto con forza dalla Nazione e che non equipara le unioni civili alla famiglia. […] Oggi la democrazia viene palesemente violata, con questa fiducia su un maxi-emendamento che nessuno ha visto. Questa è dittatura.

Innanzitutto, trovo sconcertante – ed ai limiti di un vero e proprio inno al “terrorismo istituzionale” – il ricattare l’esecutivo di un Paese sulla base dell’approvazione di una legge avvenuta in sede parlamentare. Non solo è eticamente quanto di più lontano vi possa essere, in termini attitudinali, dalla tanta decantata morale cattolica. Ma è di una illogicità tecnica senza scusanti. L’equiparare, forzatamente, il giudizio individualistico, tramite il quale il singolo cittadino, in piena autonomia e libertà – come da tradizione per qualsivoglia Stato laico -, valuterà la riforma della Costituzione, alla mera attività parlamentare – che per tematiche, niente ha avuto a che fare con quanto si verrà a discutere poi nel prossimo Novembre – è di una brutalità politica a dir poco imbarazzante. Anche perché i piani stessi della legittimazione normativa sono totalmente differenti: nel caso del ddl Cirinnà è la rappresentanza politica che si occupa della res publica; sul referendum di revisione costituzionale del prossimo Autunno entrerà in funzione la dinamica legata alla democrazia diretta. Se dovessimo ragionare in questo modo allora ogni disegno di legge, dopo essere stato approvato in sede parlamentare, dovrebbe anche venire sottoposto a plebiscito popolare. Non solo il ricatto in sé, dunque, lascia alquanto perplessi; addirittura il sovrapporre il piano della rappresentatività a quello del direttismo.

Continuo poi a fare molta fatica a comprendere il significato di dichiarazioni del tipo «[…] si ha la malafede di affermare che si tratta di un provvedimento urgente, richiesto con forza dalla Nazione […]». Che significa? Vi sono forse dei parametri di valutazione oggettiva che permettono di stilare una scala delle priorità politiche, fondata su di una logica comparativa? Senza contare il fatto che la discriminazione legittimata da una matrice di stampo sessuale, personalmente, io la trovo particolarmente grave e dannosa per l’intero assetto sociale di un Paese. Ma la posizione sostenuta da Gandolfini la reputo fortemente criticabile anche per un’altra questione.

Quando osteggia la forzatura del Governo in relazione sia alla non presentazione del testo di legge alla Commissione Giustizia sia per quanto concerne il ricorso alla fiducia per la votazione finale – prassi consentita ma, nella maggioranza delle volte, sinonimo di instabilità esecutiva e/o di scarsa “comunicatività democratica” tra le parti -, Gandolfini, pur avendo ragione, o non ha ben compreso la situazione politica italiana oppure mente sapendo di farlo. Perché il dramma vero, quello che per l’ennesima volta siamo stati obbligati ad assistere in Italia nelle vesti di cittadini – mediamente informati dei fatti -, non è stato tanto l’approvazione in sé della legge. Ma, bensì, l’approvazione di questa legge. Perché questa legge è una legge imperfetta, che crea molta confusione e che poteva e doveva essere, invece, risolutiva in toto, una volta per tutte, per ogni questione concernente la famiglia lato sensu. Il dramma vero è stato assistere nuovamente alle lotte intestine all’interno dei partiti, ai dietro-front, ai tatticismi compiuti per “la caccia al consenso elettorale”, agli indottrinamenti opportunistici ed alla totale incapacità di sedersi attorno ad un tavolo a ragionare democraticamente per la creazione di un testo di legge che fosse, allo stesso tempo, illuminato ed illuminante per tutti noi. Perché il riconoscimento di questi diritti e doveri è sacrosanto ed è compito di tutte le avanguardie politiche (e non) farlo comprendere anche ai propri elettori e all’intera cittadinanza. Il dramma, in sintesi, è stato constatare, ancora per una volta, come le forze politiche nostrane siano “inchiodate” su barricate e posizioni secolarizzate ed oscurantiste, e l’avere, di conseguenza, assistito al vederle non fare niente di utile e costruttivo per acculturare – oltre che sé stesse – la propria mole di proseliti. Gandolfini critica il sistema e la procedura tramite la quale questo disegno di legge è stato tramutato in norma vigente. Ma ne è anche lui complice ed artefice. Tanto come cittadino quanto come avanguardia politica.

Vi lascio alcuni links nel caso voleste verificare alcune fonti o approfondire quanto trattato nell’articolo.

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