Dato che durante questi ultimi giorni – anche se il problema, tutto italiano ovviamente, è, ahimè, ultra-decennale – non si fa altro che parlare di maggioritario e proporzionale, di correttivi da applicare all’italicum per l’elezione del Senato, di attendere il giudizio della Consulta in merito alla costituzionalità (o meno) di questa legge e via discorrendo, cerchiamo di fare almeno un minimo di chiarezza su quattro concetti fondanti la politologia moderna. Ovvero: sistema maggioritario, sistema proporzionale, collegio/i uninominale/i e collegio/i plurinominale/i.
Avviamo la nostra riflessione prendendo spunto dalle parole del politologo Giovanni Sartori:
Un sistema elettorale è maggioritario se il voto si esprime in collegi (di regola uninominali) nei quali il vincitore è chi taglia primo il traguardo – ossia chi prende il maggior numero di voti -, il cosiddetto first-past-the-post system. Viceversa, ogni sistema elettorale nel quale il voto si esprime in collegi plurinominali (da due in poi) eletti sulla base del più alto numero dei voti, è un sistema proporzionale.
La differenza tra collegio uninominale e collegio plurinominale dovrebbe apparire chiara fin da subito. Nei collegi uninominali ciascuna lista di partito presenta come candidabile eleggibile uno solo candidato. Uno ed uno solo soltanto. Al contrario, nei collegi plurinominali l’elettorato attivo vota per una lista di nomi e non per un singolo candidato. Cosa significa questo? Beh, in poche parole, senza fare troppi ragionamenti cervellotici, possiamo affermare senza dubbio che il metodo proporzionale tende a favorire la presentazione agli elettori di liste di partiti, mentre il maggioritario liste di persone. Difatti, con il sistema elettorale proporzionale è fondamentale che sia il partito ad ottenere il voto, in quello maggioritario il voto che si valorizza è quello dato al singolo candidato.
Ed il conteggio dei voti come avviene? Allora nel sistema maggioritario il calcolo è relativamente molto semplice: si considera vincitore il candidato che ottiene la maggioranza assoluta dei voti (50,01% dei voti validamente espressi durante il turno elettorale) o – come accade molto spesso, in effetti – quella relativa. Ad esempio negli Stati Uniti vi è un maggioritario a turno unico in cui vince il candidato che ottiene la maggioranza relativa dei voti. In Francia, invece, abbiamo un maggioritario a doppio turno dove per essere eletti è necessario ottenere la maggioranza assoluta, altrimenti, per l’appunto, si va al ballottaggio tra i candidati che hanno ottenuto al primo turno il superamento della soglia di sbarramento. Per quanto concerne il proporzionale, beh questo è pane per politologi, tecnici e statisti di primo livello, dato che si tratta di dover scegliere precisi e ben definiti quozienti elettorali per calcolare come i seggi debbano essere poi ridistribuiti tra i partiti, in base ai voti validamente ottenuti. Vi sono i quozienti di Hare, di Bischoff, di Droop e via discorrendo. Inoltre la proporzionalità del proporzionale – perdonate l’allitterazione – non è influenzata solo dal tipo di quoziente usato per la ripartizione dei seggi ma, bensì, anche dalla grandezza delle circoscrizioni: più grande è la circoscrizione elettorale, maggiore sarà la sua stessa proporzionalità.
Quali sono i vantaggi del sistema maggioritario? Beh, oserei dire che il sistema maggioritario risulti, tutto sommato, essere ottimo soprattutto per quei Paesi in cui il bipartitismo sia uno degli elementi fondanti l’intero sistema politico della nazione. O, ad ogni modo, ottimo per quei paesi in cui non vi sia un’incontrollata proliferazione di liste, partiti e movimenti. Il maggioritario, infatti, riduce la frammentazione politica e partitica e tende a garantire che venga eletta una maggioranza “salda” di governo. Proprio perché si sceglie o per l’uno o per l’altro, con una forte dispersione di voti “non validi” – ai fini della vittoria – di chi non abbia optato per nessuna delle due forze in gioco. Ma, molto probabilmente, è proprio questo il grosso difetto del sistema maggioritario: può portare ad una rappresentatività fortemente deviata e mistificata. Trumph pare esserne oggi un chiaro esempio. In poche parole: se vince solo uno, gli altri sono esclusi. Senza contare che se un candidato dovesse vincere con la maggioranza relativa dei voti – inferiore cioè al 50% -, tutto il resto dei voti andrebbe perduto. Praticamente questo vincitore rappresenterebbe solo e soltanto il suo collegio.
E sul proporzionale, che dire? Indubbiamente è un sistema che tende a garantire una rappresentanza equamente estesa a tutte le forze politiche, tenendo quindi in considerazione (quasi) tutti i voti di preferenza politica espressi dal corpo elettorale. Ma è viziato, altrettanto indubbiamente, da due enormi mancanze. Primo fra tutti, può favorire la frammentazione partitica. Secondo, può originare governi deboli e poco longevi. E, difatti, si rende poi necessario il porre in essere governi di coalizione o “di ampie intese”. Non che questo sia un male. Anzi. Ma sicuramente è necessario avere partiti politici coscienziosi che lavorino per il perseguimento dell’interesse nazionale, non sacrificando però, al contempo, i valori fondanti la loro stessa agenda, nei confronti della quale la cittadinanza si è riconosciuta durante il turno elettorale. Il bilanciamento di un’intesa politica pluripartitica tra grado di polarizzazione di un partito e la necessità di scendere a compromessi per il bene di una qualsiasi riforma determinerà sempre e comunque la qualità istituzionale e culturale di un Esecutivo legittimato tramite un sistema proporzionale. Su questo bilanciamento dovrebbe poi cadere saldo e fermo il giudizio qualitativo dell’elettorato. Nei riguardi sia del governo sia dei partiti che lo costituiscono.
Ricordati di votare l’articolo, se vuoi, utilizzando il tasto rate this all’inizio del post.