Il nome di Prometeo significa “previdente”, “lungimirante”, “accorto” et similia. È uno dei pochi titani a schierarsi dalla parte degli Olimpici durante la Titanomachia. All’interno della mitologia classica, Prometeo viene ritenuto essere il salvatore del genere umano – se non il suo stesso creatore -. Il mito si sviluppa a seguito di un incarico ben preciso affidatogli dal nuovo Signore dell’Olimpo, Zeus: creare un legame di duratura e necessaria reciprocità tra gli Olimpici e gli “effimeri”, ovvero i mortali. Mentre, infatti, a suo fratello Epimeteo spetta il compito di porre in essere tutte quelle leggi della Natura in grado di regolare la vita degli animali, a Prometeo tocca l’onere di comprendere come salvaguardare il futuro dell’uomo. Sia dalla furia degli elementi che dai capricci degli Dei.
Il furto del fuoco – elemento verso il quale i poveri mortali vengono continuamente attratti, a causa dei fulmini lanciati da Zeus contro il verde Creato – è particolarmente simbolico, in effetti. Prometeo incarna la concezione classica del concetto di libertà. Una libertà assunta nel suo significato più prettamente “negativo” – non che questo debba farci confondere in seno a valutazioni di tipo prettamente morale -: nella cultura classica la libertà individuale è ritenuta sacrificabile nei riguardi degli interessi generali e collettivi dell’intera comunità. Prometeo, dunque, rappresenta il sacrificio del singolo, necessario alla salvezza dei più. Ma il furto del fuoco cela particolari e profondi significati: è tramite questo elemento che gli uomini non solo imparano ad onorare gli Dei, tramite i sacrifici eseguiti in loro onore, ma, bensì, anche ad ingannarli – come dimostra l’episodio del rito rivolto a Zeus, il quale può compiacersi solo delle ossa e della pelle dell’animale sacrificato; quest’ultimo, infatti, viene prima volutamente reciso lungo tutto il basso ventre, di modo che, una volta sollevato in aria in segno di dono, la sua carne e le sue viscere cadano a terra e restino così a disposizione dei mortali -.
La stessa diffusione dell’uso della parola è l’ennesima intuizione che spinge il titano a comprendere di quali mezzi l’uomo si debba subito attrezzare per veder salva la propria stirpe – e circa l’importanza del linguaggio in riferimento al mito strincto sensu (inteso, quindi, come vero e proprio “universo simbolico” di riferimento) restano tutt’oggi vaste le speculazioni sia filosofiche che sociologiche -.
La lungimiranza di Prometeo è talmente protratta nel lungo periodo, che egli stesso ha modo di prevedere quali punizioni Zeus riserverà alla stirpe dei mortali. Come la diffusione, nelle loro primitive menti, dell’intelligenza – per opera di Minerva – o la costruzione della prima donna, affinché possano lottare per ritagliarsi le sue grazie ed attenzioni – incarico questo affidato al Dio Efesto -. Ma sono punizioni che il titano ha ben compreso essere del tutto terapeutiche. Fondamentali e necessarie cioè per la salvezza futura dell’intera razza umana.
La parte più tragica del mito è il supplizio imposto a Prometeo ed al quale il titano deve sottostare per il trascorrere di numerose generazioni mortali: incatenato sull’inospitale Caucaso e costretto a venire seviziato di giorno da un’aquila reale, mentre ogni notte le sue ferite continuano a rimarginarsi fino all’alba seguente, dando così mai fine alla sua pena. La sua salvezza avviene per mano di Eracle (Ercole), inviato per volontà dello stesso Zeus; a testimoniare, quindi, come tutto quanto il mito non sia altro che un inno rivolto all’uomo e ai sacrifici da esso stesso sopportati per affermare il proprio diritto di venire ed esistere al Mondo.
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