LA CASA DEGLI USHER.


[…] «Casa degli Usher», un appellativo che sembrava racchiudere, nella mente del contadiname che lo usava, tanto la casata quanto il maniero familiare.

Forse uno dei racconti più immersivi e “claustrofobici” di Poe. Sicuramente uno dei più riusciti. Senza ombra di dubbio uno di quelli in cui la fusione stilistica tra la prima persona, usata come voce narrante, e la scelta – tanto accorta quanto, a tratti, forbita – dei termini scelti e del lessico adottato, riesce a produrre nel lettore una totale, avvolgente e vibrante immedesimazione in ogni avvenimento. In ogni singolo avvenimento che prende vita e forma all’interno delle raccapriccianti mura della casa della famiglia Usher. Il ritmo narrativo è, difatti, subito incalzante. Ed è doveroso, dopotutto, che lo sia. Il crescente disagio del protagonista, infatti, va di pari passo con la descrizione della villa degli Usher. Anzi. Risulta essere proprio quest’ultima ad influenzare lo stato d’animo dell’osservatore. Non è di certo la prima volta che la percezione e la tangibilità – apparente o forse no?!? – delle oggettualità sensibili viene de facto sfruttata da Poe come elemento (narrante) per giustificare il nascere di particolari emozioni ed il divampare di ataviche paure ed angosce:

Fui costretto a fermarmi sulla insoddisfacente conclusione che mentre, senza dubbio, esistono combinazioni di oggetti naturali e semplicissimi che hanno il potere di così influenzarci, l’analisi tuttavia di questo potere sta in considerazioni che superano la nostra portata. Poteva darsi, riflettei, che una piccola diversità nella disposizione dei particolari della scena, o in quelli del quadro sarebbe bastata a modificare, o fors’anche ad annullare la sua capacità a impressionarmi penosamente; e agendo sotto l’influsso di questo pensiero frenai il mio cavallo sull’orlo scosceso di un oscuro e livido lago artificiale che si stendeva con la sua levigata e lucida superficie in prossimità dell’abitazione, e affissai lo sguardo, con un brivido che però mi scosse ancor più di prima, sulle immagini rimodellate e deformate dei grigi giunchi, degli spettrali tronchi d’albero, delle finestre aperte come vuote occhiaie.

Non è casuale che la parola “superstizione” venga evocata quasi subito dal “Poe narratore”. Essa, dopotutto, oblitera la razionalità e fomenta misteri inspiegabili e sensazioni che possono apparire tanto illogiche quanto imperscrutabili. La superstizione viene sfruttata nello stesso identico modo con cui Poe utilizza il panorama desolante e tenebroso del maniero degli Usher, ovvero per acuire la percezione della realtà circostante nella mente e nell’animo del lettore. Ma si tratta, ovviamente, di una percezione pilotata, veicolata, mirata ad esperire sensazioni angoscianti e nei riguardi delle quali il senso d’impotenza e di ineluttabilità regna sovrano e dimora sopra tutto e tutti:

Non può esservi dubbio che la consapevolezza del rapido aumentare della mia superstizione, – infatti, per quale motivo dovrei definirla altrimenti? – era servita principalmente ad accelerare quest’aumento. Tale, lo sapevo da tempo, è l’assurda legge di tutti i sentimenti aventi come base il terrore. E poteva essere stato per questo motivo soltanto che, allorché tornai ad alzare gli occhi verso la casa, distogliendoli dall’immagine di essa riflessa nello stagno, subentrò nella mia mente un pensiero bizzarro, talmente bizzarro e paradossale, che lo riferisco unicamente per dimostrare quanta fosse intensa la forza delle sensazioni che mi opprimevano. Avevo talmente esaltata la mia fantasia al punto di credere realmente che su tutta la dimora e sulla tenuta pendesse un’atmosfera caratteristica ad esse e alle immediate vicinanze, atmosfera che non aveva alcuna affinità con l’aria del cielo, ma che si esalava dagli alberi ammuffiti, dal grigio muro, dal silenzioso stagno, come un vapore pestilenziale e mistico a un tempo, opaco, tardo, appena percettibile, soffuso di un sfumatura plumbea.

Tanto l’esterno quanto l’interno dell’ambiente, nel quale si sviluppa l’intera vicenda, giocano un ruolo fondamentale. Non solo. Tra esterno ed interno vige un meraviglioso e raccapricciante rapporto di continuità. Lo stesso è avvalorato, in primis, dalla descrizione fornitaci dallo stesso Poe; una descrizione finalizzata ad enfatizzare lo stato di disagio e di tormento del visitatore:

Molto di quel che incontrai sul mio cammino contribuì, non so perché, ad avvalorare quel senso di vaga paura cui già ho alluso. Mentre gli oggetti che mi circondavano, le decorazioni del soffitto, le fosche tappezzerie delle pareti, la nerezza d’ebano dei pavimenti, i trofei allucinanti e le armature che vibravano al mio passaggio con secco rumore metallico, erano cose alle quali, anche in altro ambiente, io ero stato abituato sin dall’infanzia, mentre non esitavo a riconoscere l’aspetto familiare di tutti questi oggetti, seguitavo tuttavia ad avvertire quanto straniate dal mio spirito fossero invece le fantasticherie che queste immagini, pur note, evocavano in me.

In secundis, dall’incedere improvviso e funesto dell’uragano notturno. Quello stesso uragano che suscita in Roderico Usher la percezione di quanto erroneamente compiuto e che obbliga lo stesso Poe a fuggire da quella casa maledetta, nel disperato tentativo di trovare riparo all’esterno delle sue stesse mura:

Da quella camera e da quella casa io fuggii inorridito. L’uragano infuriava ancora in tutta la sua collera mentre io attraversavo l’antico sentiero selciato.

Il racconto narra, infatti, di una visita fatta ad una caro e malato amico d’infanzia, tal Roderico Usher. La stessa malattia, che, fin dal loro primo incontro, appare stritolare senza alcuna pietà il povero erede della casata degli Usher, è tanto raggelante quanto impossibile da comprendere e/o da spiegare a parole. Sembra essere come del tutto imperscrutabile. Incomprensibile. A tratti anche profondamente illogica. Su di essa veleggia solo una certezza. E si tratta di una piena ed umana consapevolezza; la stessa che dà vita ad alcune tremolanti parole, pronunciate dallo stesso martire:

Io morirò, dovrò morire in questa disperata follia. Così, così, non altrimenti mi perderò. Temo gli avvenimenti del futuro non di per se stessi, ma per i loro risultati.

L’opera ruota tutt’attorno al rapporto tra Roderico e sua sorella gemella, Madeline, anch’essa affetta da uno strano male; un male che si limita ad assumere la forma del mero e volontario abbandono alla morte. Il legame gemellare, dopotutto, è una tematica particolarmente cara a Poe. Perché trattasi di un rapporto intenso, dai tratti quasi soprannaturali, che può essere fonte di giustificazione per molte teorie formulate in seno alle sviluppate capacità sensoriali ed extra-sensoriali di tali soggetti, capaci, per l’appunto, di comprendere perfettamente l’uno il dolore e l’afflizione dell’altro, pur non trovandosi vicini.

Il terrore, narrato da Poe, trae la propria forza inarrestabile da una dramma: l’errata valutazione formulata dallo stesso Roderico nei riguardi dello stato di salute di sua sorella Madeline. La fanciulla, difatti, viene creduta erroneamente morta e per questo sepolta viva. Il monologo dell’erede degli Usher altro non è che la chiara e palese manifestazione del suo stesso turbamento psicotico, causato dalla comprensione sensoriale di quanto commesso per sbaglio:

Non l’ho udito? Certo che l’ho udito. E lo odo ancora. Da tanto… tanto… tanto… da molti minuti, da molte ore, da molti giorni, io lo odo e tuttavia non ho osato, oh pietà di me, miserabile sciagurato che sono! Non osavo… non osavo parlare! L’abbiamo calata nella tomba viva!

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