Il Fedone si sviluppa lungo due tematiche. Da una parte, abbiamo la lunga e profonda trattazione riguardante l’anima. Si tratta di un’argomentazione particolarmente complessa e ricca di vere e proprie botte e risposte tra Socrate ed i suoi interlocutori – in special modo, Simmia e Cebete -. Dall’altra parte, troviamo l’atopia che Platone stesso utilizza per definire accuratamente il “Socrate uomo” ed il “Socrate filosofo” durante le ultime ore della sua vita. All’interno di una tale complessità narrativa, ci viene presentata una introduzione che, ad una lettura poco attenta e superficiale, potrebbe apparire addirittura stonata e poco “consona” a quanto poi discusso e trattato con il proseguire delle pagine ma che, in realtà, assolve perfettamente al ruolo di avvio all’intera riflessione concernente l’anima. Iniziamo proprio da qui, allora.
Socrate prende subito la parola ed afferma non soltanto di non temere la morte ma, bensì, di non vedere l’ora di morire. Tale desiderio è giustificato dal fatto di ritenersi un filosofo: il “filosofo”, dunque, a causa proprio del suo esser tale, desidera sempre la morte. Addirittura Socrate non riesce a comprendere perché i suoi amici si stupiscano di una simile ammissione: anch’essi, infatti, sono filosofi e, dunque, dovrebbero capire e condividere appieno la bramosia dell’amico. L’argomentazione di Socrate, oltre che divenire fonte di stupore e sbigottimento tra gli interlocutori, si costituisce di una (apparente) idiosincrasia: il filosofo, infatti, ammette di desiderare di morire al più presto, nonostante però vi sia un più che lampante “imperativo” che inibisce gli uomini di far loro stessi del male – si ricordi che stiamo parlando dell’aspirazione socratica al suicidio tramite l’ingerimento della cicuta -. Si apre subito una prima chiave di lettura. Cos’è questo “imperativo” menzionato dallo stesso Socrate? Abbiamo a disposizione più chiavi di lettura.
Una prima interpretazione è di tipo prettamente “storico” e serve a comprendere il perché i compagni di Socrate si stupiscano del desiderio dell’amico di togliersi al più presto la vita. Simmia e Cebete, infatti, vengono presentati come discepoli di Filolao, un noto pitagorico. Tra i vari imperativi rivolti agli iscritti della Scuola, vi è, infatti, anche quello di non arrecarsi volontariamente del male. Da qui, dunque, l’esitazione dei due amici ad accettare l’esternazione “folle” del compagno.
Una seconda interpretazione è di natura concettuale e allegorica, e verte sull’interpretazione del significato etimologico del termine greco phroura. La parola phroura, infatti, significa “cella”, “prigione”, ecc., e viene utilizzata per indicare il legame indissolubile che lega l’anima di un uomo al suo stesso corpo. Si tratta di un’unione voluta e sancita dagli Altissimi. La violazione della stessa – attraverso, ad esempio, un atto di suicidio – potrebbe venire letta come un’offesa rivolta alla volontà degli Dei. Il termine phroura può anche venire tradotto con i significati di “guardia”, “posto di guardia”, “sentinella” et similia. Anche in questo caso il ragionamento allegorico è alquanto esaustivo: togliersi la vita, infatti, potrebbe venire considerato essere un atto equiparabile al tradimento, alla diserzione, e via discorrendo.
Ad ogni modo, se esiste, dunque, un imperativo che inibisce l’atto del suicidio, perché mai Socrate, appellandosi solo al suo ritenersi essere un filosofo, si sente autorizzato, nonostante la piena consapevolezza dell’esistenza di un simile divieto, a togliersi la vita? Ancora una volta, il ragionamento avanzato si dimostra essere profondamente allegorico.
Socrate, infatti, sostiene come, in presenza di un qualcosa che evidenzi la chiara volontà degli Dei, l’azione dell’uomo goda di benedizione a procedere. Secondo il filosofo, l’arresto eseguito dagli ateniesi è una chiara dimostrazione di come gli Altissimi lo abbiano autorizzato a togliersi la vita. Da questa interpretazione, Socrate si sente, quindi, giustificato de facto a procedere.
L’intera introduzione, dunque, ci permette di comprendere due aspetti del pensiero socratico. In primis, possiamo cogliere una ben chiara consapevolezza, insita e ramificata all’interno del pensiero del filosofo: vi è un “qualcosa” dopo la morte. In secundis, la morte viene interpretata non come “stato” ma, bensì, come “evento”. In pratica, a Socrate non interessa la morte intesa come “corpo privo di vita” ma, al contrario, come il passaggio che permette all’anima di separarsi dal corpo medesimo. La distinzione semantica, infatti, è quella tra “essere vivente” – l’anima – e “persona vivente” – ovvero l’essere vivente che ha configurazione umana (anima unita al corpo) -. L’anima, difatti, come vedremo, è l’io, ovvero l’essenza ontologica dell’individuo. È eterna, immortale ed indistruttibile e, in termini di pienezza, si esprime e si rivela attraverso la facoltà intellettiva e cognitiva dell’uomo – unica facoltà che, secondo Platone, per venire esperita, non richiede l’ausilio del corpo (una lettura che, ai nostri giorni, appare essere alquanto fuorviante, data la necessità del cervello per lo sviluppo di qualsivoglia forma di atto psichico) -.
Ricordati di votare l’articolo, se vuoi, utilizzando il tasto rate this all’inizio del post.