Il nome Medea deriva dal verbo greco médomai che significa “inventare”, “creare”, ecc. Da un punto di vista prettamente semantico, lo stesso rimanda all’idea di preparare miscele, unguenti, pozioni, medicinali e via discorrendo. Pratiche che, tutto sommato, ben si sposano con la figura rappresentata nel mito. Medea, infatti, principessa della Colchide, discendente del Dio Sole, è colei che ha assistito Giasone nel furto del vello d’oro e che, per amore di quest’ultimo, ha rinunciato alla propria terra natia, arrivando addirittura ad assassinare Apsirto, suo fratello. Per amore di Giasone, la donna ha anche ingannato suo padre, il Re Eete, ed è divenuta così una rinnegata tra la sua gente. In quanto non greca, finisce con il venire considerata alla stregua di una mera barbara. Anzi. Una maga, per l’esattezza. Difatti, grazie al proprio sapere arcano, si adopera ad aiutare, in diverse situazioni, le donne di Corinto, che si recano da lei in cerca di aiuto e di assistenza.
L’intero mito si sviluppa lungo tre tematiche. Sono profondamente concatenate tra di loro, di modo che la stessa narrazione possa apparire tanto lineare quanto profondamente comprensibile, da un punto di vista logico. Il primo tema che occorre prendere in esame è quello dell’amore.
Medea, infatti, è follemente, pazzamente e ciecamente innamorata di suo marito Giasone. Si tratta di un amore a tratti puro e dolcissimo, simile alla infatuazione che la giovane principessa ebbe di lui anni addietro, durante la missione che l’eroe compì con gli Argonauti nel regno della Colchide. Ma è anche un sentimento viziato dalla troppa irrefrenabile passione e tale da divenire ossessivo ed oltremodo invasivo. Un attaccamento talmente morboso che porta la donna a non tollerare nemmeno il più piccolo errore o la più impercettibile svista che si mostri in grado di arrecare danno all’amato.
Nutrice: Non vi è alcuna saggezza nell’amare un marito come lo fai tu.
Medea: Che cosa sai tu dell’amore?
Nutrice: Che rende cieche anche le donne sagge come te.
Segue poi il tema dell’odio. Il tradimento di Giasone, sposatosi in gran segreto con Creusa, principessa di Corinto, porta Medea a porre in atto quello che, ancora oggi, appare essere la più brutale e terrificante delle vendette. Colpiscono due cose, nell’analisi psicologica e comportamentale della donna, durante la sua decadenza morale. Da un lato, infatti, è possibile scorgere la grande abilità di Medea nel saper ingannare tutti quanti e nel riuscire a non rivelare a nessuno i propri reali intenti. Con estrema facilità ottiene protezione nella città di Atene. Con altrettanta arguzia e raffinata arte ingannatrice, svia le attenzioni del marito dalle sue reali attenzioni, riuscendo addirittura a renderlo complice della sua fuga – l’effigie che Giasone pone ai piedi della statua della Dea Venere finisce, infatti, col tramutarsi nel drago alato con la quale la donna fuggirà in seguito da Corinto -. Anche l’assassinio di Creusa e di suo padre, il re Creonte – colpevole di avere permesso il matrimonio tra sua figlia e Giasone – è una perfetta manifestazione dell’abile mente sadica e vendicativa della donna. Dall’altro lato, però, abbiamo anche Medea nelle vesti di madre e non solo, quindi, di moglie tradita ed abbandonata. Fino all’ultimo istante, la donna cerca in tutti i modi di convincersi a non assassinare i suoi stessi figli. Quegli stessi figli che ha avuto dal marito traditore. Il fatto che i piccoli vengano sgozzati entrambi con un unico rapido fendente soltanto quando Giasone è sul punto di irrompere entro la loro abitazione, è la dimostrazione di come, a differenza del piano orchestrato ai danni della famiglia reale, l’esito funesto sia dovuto in questo caso soltanto dalla frenesia del momento. Ma, ancora una volta, nonostante il parricidio e l’afflizione infinita provata dalla donna a causa di quanto compiuto, ecco che la maga trova nuovamente la fierezza per ergersi di fronte a colui che l’ha tradita, palesando una freddezza ed una regalità che contrastano – terribilmente! – con quanto appena macabramente realizzatosi:
Giasone: Mi hai strappato in modo orribile la mia sposa e il re che ci accolse nel suo regno: mi privi brutalmente dei miei figli, tanto di quelli che avrei dovuto generare come di quelli che già avevo. Mi hai tolto tutto. E ancora mi accusi?
Medea: Sei l’unico colpevole.
Giasone: Maledetto il giorno in cui incrociasti il mio cammino! Ti sei vendicata, fiera selvaggia. Ora lasciami entrare, lasciami baciare i miei figli, dirgli addio, seppellirli.
Medea: Sarò io a dare loro sepoltura, non tu, che ne hai causato la morte. Non pensavi di viver felice senza di noi? Ne hai la libertà.
Giasone: Sventura senza nome!
Medea: Mi chiamo Medea. E non sono più sventurata di te. Tu mi hai distrutta. Io ti ho procurato danno come più ti avrebbe fatto soffrire. Siamo in pace.
La lettura del mito, però, deve essere integrata anche di un terza considerazione. Profondamente importante, considerando anche come la donna viene considerata nell’Antica Grecia. Medea, infatti, incarna la ribellione brutale e violenta alla legge degli uomini. Ella si staglia contro tutti i precetti profondamente misogini che esigono che la donna sia relegata alla più totale delle sottomissioni e alla più silenziosa delle obbedienze. L’indole di Medea, così passionale e travolgente e tale da convincerla anche a compiere azioni imperdonabili, è un monito rivolto all’intero ordinamento valoriale di riferimento. Un ordinamento che vede l’uomo nelle vesti di assoluto ed indiscusso padrone della vita e dei sentimenti delle donne.
Ricordati di votare l’articolo, se vuoi, utilizzando il tasto rate this all’inizio del post.