Attraverso le pagine del primo libro della Repubblica assistiamo a due dialoghi aventi come scopo l’introduzione al tema della Giustizia – o del Bene in sé e per sé -. Le due conversazioni che Socrate intrattiene con Simonide e Polemarco, prima, e Trasimaco, subito dopo, fanno da preludio all’ampia trattazione, contenuta nel II° e III° libro ed avente come interlocutore principale Glaucone, riguardante “cosa sia da ritenersi giusto e quale vantaggio porti con sé una vita onesta”.
La prima tesi, concernente la definizione di Giustizia e che Socrate viene chiamato a sconfessare e controbattere, è quella avanzata da Simonide e Polemarco. Quest’ultimi sostengono come “giusto” e “sbagliato” debbano venire intesi nel rispetto del principio secondo cui “ad ognuno spetti il suo”. Simonide e Polemarco affermano, infatti, come la giustizia consista nel beneficiare gli amici e nel danneggiare i malvagi. In sintesi: a tutti coloro che amano e rivolgono affetto al prossimo è doveroso contraccambiare con altrettanta virtù, mentre nei riguardi di coloro che, al contrario, danneggiano e procurano dolore ai propri simili è lecito – nonché legittimo – fare uso della stessa moneta. Il ragionamento di Simonide e Polemarco si affida ad una interpretazione profondamente personale del significato di “cosa sia bene”… motivo per cui la stessa viene, inevitabilmente, svuotata del tutto di ogni riferimento ideale e trascendentale.
Per sconfessare quanto sostenuto dai due amici, Socrate chiede a Polemarco se un uomo, ritenuto essere “giusto”, possa essere capace di arrecare danno al proprio prossimo. Stando, infatti, a quanto sostenuto poco sopra, anche un uomo giusto può arrecare danno e dolore ad un suo simile… nel caso, per l’appunto, che quest’ultimo sia un malvagio – “ad ognuno spetti il suo” -. Platone, per bocca del proprio maestro, avvia tutta una seria di comparazioni per evidenziare l’illogicità di fondo del ragionamento dei due compagni. Esattamente come fare del male ad un cavallo o ad un cane non giova al miglioramento della qualità dei due animali, fare del male ad un uomo ingiusto non fa altro che renderlo ancora di più malvagio. Il paradosso consiste proprio in questo: come è possibile che la virtù renda malvagia una persona? O, per essere ancora più esaustivi: “Come può un uomo giusto far sì che la virtù, che lo rende tale, provochi un incremento della malvagità nel suo prossimo?”. L’unica conclusione possibile e logica è che il “far del male” sia da ascrivere unicamente ad un uomo malvagio e non giusto. Quindi, “fare del male” è un qualcosa di non giusto… il che significa che la dinamica concettuale “ad ognuno spetti il suo” sia, in fin dei conti, solo una mera aporia.
Terminato il dialogo con Simonide e Polemarco, prende la parola Trasimaco. La presenza del sofista – esattamente come il tono che Platone gli ascrive – non è casuale. Trasimaco, infatti, diviene un vero e proprio espediente tramite il quale Platone può mettere in evidenza l’aponia del suo maestro e la distanza filosofica che lo separa dal movimento sofista. Trasimaco, infatti, accusa apertamente Socrate di rendere mistificante ogni forma di dialogo e di conversazione in quanto il “maestro” si limita, solo e soltanto, ad osteggiare le tesi presentategli, senza però mai esporsi in prima persona e senza mai fornire una definizione esatta di quanto trattato. Si tratta della critica “storica” mossa contro Socrate dall’intero movimento sofista: il fatto di pensare solo a porre l’altrui interlocutore dinanzi alla infondatezza del proprio ragionamento, senza però presentare una visione alternativa di quanto discusso. In poche parole, Socrate è accusato di “pararsi” sempre dietro al suo “sapere di non sapere”, onde non correre il rischio di affermare qualcosa che potrebbe venire sconfessato e denigrato. Ma vi è di più. Durante il dialogo con Trasimaco, Platone fa vertere volutamente l’attenzione sul tema del denaro. Stando, infatti, a quanto sostenuto nei riguardi del “Socrate storico” – e non di quello “meramente platonico” -, il saggio filosofo fu sempre particolarmente restio alla ricchezza e al farsi pagare per i propri “servigi”… tutte “caratteristiche di vita” che, al contrario, ben rispecchiavano, a quanto sembra, alcuni noti sofisti – chiamati per l’appunto, “intellettuali di professione” -. Anche l’apologia che, ironicamente, Platone fa dell’ars loquendi di Trasimaco e della sua abilità di ottimo oratore e persuasore, evidenzia il distacco tra la dialettica platonica e l’interpretazione tecnica-formale del linguaggio tipica del movimento sofista.
Che io impari dagli altri è vero, Trasimaco; ma hai torto ad affermare che io non sono riconoscente. Li ripago come posso; e posso soltanto elogiarli, perché non ho denaro. Ma con quanto entusiasmo io elogi chi mi sembra parlare bene, lo saprai subito, non appena avrai dato la tua risposta. Perché sono certo che tu parlerai bene!
Trasimaco ritiene che la Giustizia consista nell’interesse del potere costituito ovvero nell’interesse del più forte. Indipendentemente dalla forma di Stato presa in considerazione, i governanti agiscono, sempre e comunque, nel proprio interesse e, sulla base di questa dinamica, fanno sì che i propri sudditi accettino per giusto ciò che essi stessi impongono loro. Il ragionamento del sofista si fonda e si giustifica su di una precisa considerazione naturale: nel Mondo della Natura, infatti, il più forte prevale, mentre il più debole viene schiacciato. È, quindi, innaturale giustificare leggi che si ritagliano il diritto ed il potere di sovvertire un ordine istituito dalla stessa Natura. Per respingere la tesi di Trasimaco, nuovamente Socrate si affida a ragionamenti comparativi.
Un medico ha come scopo il malato ed essendo la medicina un’arte, in quanto tale, la stessa ha come obiettivo il perfezionamento di sé medesima. Per perfezionarsi, la medicina non può non avere altro interesse che il corpo, dato che per migliorarsi deve curare e combattere le malattie. Questo implica che il medico non possa avere altro interesse che il malato e che ogni sua azione venga sempre, dunque, rivolta nei confronti non di chi è più forte ma di chi è più debole. Quindi l’autorità (il medico nell’esercizio della sua arte) non impone il proprio interesse ma, bensì, si adopera in funzione e per il bene di colui verso cui agisce (medico → malato). Si tratta solamente di sostituire al “medico” la figura del “governante”.
A questo punto Trasimaco controbatte, affermando come in ogni situazione umana, compreso negli accordi tra privati e negli affari pubblici, sia impossibile trovare un uomo giusto che possa palesarsi “avvantaggiato” rispetto all’ingiusto. Il sofista giunge, addirittura, a sostenere che «si condanna l’ingiustizia non per timore di praticarla, ma per paura di subirla.» L’ingiustizia, quindi, risulta – tra le altre cose – essere anche più “conveniente” rispetto al comportarsi rettamente. Socrate sfrutta, ancora una volta, un ragionamento di tipo comparativo.
Ogni arte possiede una propria funzione ed il vantaggio per l’artista di produrre tale attività deriva da un fattore che è esterno alla stessa. L’arte del medico, ad esempio, promuove la salute. In essa l’arte medica trova la propria essenza. Ma non vi è niente di male nel vedere un medico venire pagato per aver compiuto il proprio compito. Certamente, al contempo, un medico continuerebbe ad essere utile proprio per la sua arte, anche nel caso non ricevesse alcun pagamento. Il discorso sulla retribuzione è particolarmente indicativo. Secondo Socrate, infatti, è assolutamente necessario ripagare con il denaro e l’onore coloro che si impegnano a comandare. Questa conclusione ribadisce quanto affermato poc’anzi: nessuna arte procura e/o impone il proprio interesse. Chi dichiara di voler comandare, lo fa per avere una retribuzione e si adopera nell’interesse dei sottoposti. Ma è così semplice l’intera questione? Si apre, infatti, a questo punto una riflessione profondamente etica che lo stesso Socrate rivolge a Glaucone. Il filosofo afferma che le persone, qualora desiderino comandare, debbano venire ripagate, altrimenti si dovranno riversare contro le stesse delle punizioni. Quali punizioni? Socrate sostiene come un uomo veramente giusto non si sognerebbe mai di governare per ricevere in cambio denaro o onore. Ciò lo renderebbe alla vista dei suoi concittadini un mercenario. Ma, allo stesso tempo, il rendersi conto da parte sua di come la fama e la retribuzione possano divenire strumenti pericolosi per attirare al governo uomini malvagi o ingiusti, lo spinge a farsi avanti. La punizione per l’uomo giusto consisterebbe, quindi, nell’aver lasciato il comando all’ingiusto e al malvagio. Ciò che appare vero e paradossale al contempo, agli occhi del filosofo, è l’esser certo del fatto che in uno Stato popolato soltanto da uomini giusti non vi sarebbe nessuno intenzionato a governare.
Trasimaco nuovamente prende la parola e formula un ulteriore ragionamento. Oltre a sostenere come la giustizia sia del tutto inutile rispetto alla ingiustizia, chiama la prima «nobilissima ingenuità» e la seconda «accortezza». Afferma, quindi, come gli ingiusti siano accorti ed intelligenti… il che pone la sapienza sul lato della ingiustizia e non su quella della giustizia. Secondo il sofista, il giusto tende a prevaricare solo l’ingiusto, mentre l’ingiusto, dal canto suo, non si fa scrupoli a prevaricare né un uomo giusto né un suo simile. In breve: l’ingiusto tende a prevaricare tanto il suo simile quanto il suo contrario, mentre il giusto soltanto quest’ultimo. L’esempio del medico viene nuovamente sfruttato da Socrate.
Un medico è un sapiente. Il che significa che è un uomo intelligente ed accorto. Stando alla definizione di Trasimaco è, perciò, un uomo ingiusto ovvero un individuo che pensa a prevaricare tanto il suo simile quanto il suo contrario. Socrate afferma che un medico tende ad imporsi soltanto su di un inesperto e non su di un altro medico; al contrario, colui che non possiede alcuna conoscenza medica desidera prevaricare sia un suo simile che un vero medico. Quindi, un sapiente (medico) prova desiderio di privileggiare non su di un suo simile ma, bensì, su chi gli è contrario (inesperto). Ma stando a quanto sostenuto da Trasimaco un sapiente (uomo ingiusto) prevarica anche il proprio simile. Il sofista ha quindi torto: soltanto un uomo giusto può dirsi sapiente.
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