Uno dei grandi – direi, “grandissimi” – temi del pensiero filosofico di Schopenhauer resta, senza ombra di dubbio alcuno, quello della morte. La morte è, difatti, una dinamica concettuale particolarmente rilevante e tale da permettere al filosofo di approfondire ulteriori argomentazioni di grande spessore. Ritengo inoltre le riflessioni sul trapasso, sul dolore e sulla caducità della vita terrena particolarmente “funzionali” all’esposizione e alla trattazione della morale di Schopenhauer… ragione per cui, al fine di affrontare il pensiero di suddetto filosofo, ho optato proprio per questa tematica come tassello iniziale del nostro puzzle.
Schopenhauer sviluppa il suo argomentare, partendo da una chiara premessa. Gli animali vivono perennemente alieni da qualsivoglia riflessione o meditazione circa la morte. Sono, quindi, consapevoli di sé medesimi nelle vesti di esseri senza fine, vivendo così appieno l’immortalità della specie cui appartengono. Occorre subito fare un minimo di chiarezza. Schopenhauer non sostiene che gli animali non abbiano paura e non temano la morte… l’istinto resta una caratteristica ontologica del loro stesso essere. Una preda che fugge da un predatore altro non è che un essere vivente che lotta per la sua stessa sopravvivenza, nel mentre esatto che va provando paura e nutrendo la medesima, in quanto conscia di una situazione di estremo pericolo. L’esser privi di una qualsiasi forma di riflessione circa la morte è dovuta, invece, al fatto che gli animali, a differenza degli uomini, sono sprovvisti della ragione e, di conseguenza, impossibilitati a riflettere circa il momento del trapasso. Non essendo “inquinati” da un “tale riflettere” vivono appieno la propria esistenza, poiché consapevoli della loro stessa immortalità. La paura della morte è, dunque, figlia della ragione. Ad essa seguono necessariamente tutta una serie di riflessioni di carattere metafisico tramite le quali l’uomo stesso cerca di scongiurare tale timore. Timore che è frutto del suo essere un individuo pensante e senziente. Queste “riflessioni metafisiche” altro non sono che le religioni ed i vari sistemi filosofici che, nel corso dei secoli, sono stati elaborati al fine di permettere all’uomo di comprendere ed accettare l’idea che un giorno egli non sarà più. Precisiamo ancora di più l’intera questione: la paura della morte è indipendente da qualsivoglia conoscenza. L’animale ha paura di morire – si riprenda come semplice esempio quello della preda di poc’anzi – ma non conosce la morte; l’uomo, invece, la teme al pari dell’animale ma si trova in una situazione ancora più “svantaggiata” in quanto ha le capacità cognitive per “trattarla”.
Nel desiderio di affrontare il tema della morte, Schopenhauer adotta un punto di vista profondamente empirico, giungendo a sostenere come nel “linguaggio della natura” la suddetta debba intendersi come “assoluto annientamento”. Motivo per cui, la morte resta di per sé il più grande timore e la più atavica paura provata da sempre dall’uomo. Si tratta di un sentimento talmente dirompente da palesarsi persino in grado di legittimare e giustificare i rapporti con l’altrui prossimo. Da una parte, infatti, focalizzando l’attenzione su temi come la pietà o il dolore, Schopenhauer pare avvicinarsi moltissimo a Hume, sostenendo come nel dolore per la morte di un amico o di una persona cara le persone finiscano con l’avvicinarsi e con il comprendersi vicendevolmente – cfr. morale simpatetica -. Dall’altra parte, invece, volgendo lo sguardo verso passioni ben più negative quali, ad esempio, il desiderio di vendetta, la morte assume le vesti del massimo male che possiamo infliggere al nostro nemico e avversario. Perché, per l’appunto, essa è “assoluto annientamento”.
Prima abbiamo sostenuto che uomo e animale sono accumunati dal fatto che entrambi temono la morte, sebbene soltanto il primo abbia poi conoscenza della stessa. Possiamo, quindi, sostenere come la paura della morte sia a priori, ovvero un qualcosa che aprioristicamente dalla nascita vada caratterizzando qualsiasi essere vivente. Qui diviene importante la semantica di Schopenhauer: «la paura della morte a priori è però appunto solo il rovescio della volontà di vivere, che siamo in realtà noi tutti.» In sintesi, in ciascun essere vivente è innata tanto la Volontà di vivere quanto la paura di morire. Il fatto è che tali dinamiche sono tra loro contigue e complementari: una preda che fugge da un predatore altro non è che una vittima della paura della morte… vittima che però agisce – fuggendo -, perché spronata da una profonda e naturale volontà di continuare a vivere. La paura di morire è, dunque, il più grande sprone alla vita e alla conservazione di sé stessi. Ma non dobbiamo dimenticare quanto sostenuto poco sopra: tutto questo non è giustificato da alcuna forma di conoscenza! Non è la ragione o l’intelletto a legittimare tali comportamenti, quanto semplicemente il fatto di essere naturalmente così costituiti. Segue un’altra osservazione particolarmente interessante.
Schopenhauer afferma che:
- la volontà di vivere è l’essenza di ogni essere ed è in esso innata;
- la volontà di vivere, proprio come la paura della morte, è priva di conoscenza e si traduce in attaccamento alla vita – l’esempio della preda di cui sopra –;
- la conoscenza è a posteriori, ovvero è un principio aggiunto in seguito;
- tra volontà di vivere e conoscenza vi è una lotta, rappresentata dal giudizio tramite il quale noi siamo soliti elogiare la vittoria della seconda sulla prima.
Dobbiamo spiegare i punti (3) e (4). Procediamo con ordine.
Come possiamo giustificare o, tutt’al più, comprendere l’attaccamento alla vita? Se l’uomo, infatti, ha conoscenza della morte e, dunque, è consapevole del fatto che, presto o tardi, la sua terrena esistenza giungerà al termine, perché rimane forte in lui l’attaccamento alla vita? Schopenhauer afferma come tale sentimento sia cieco e del tutto irrazionale – data la consapevolezza della ineluttabilità della morte – e possa essere giustificato solo sulla base di una considerazione: l’intera essenza dell’uomo è da intendersi come Volontà di vivere e la vita, quindi, assume le vesti del “bene supremo” (1). Un bene da preservare ad ogni costo. Esattamente come la paura della morte è apriorica alla conoscenza, anche l’attaccamento alla vita è priva di conoscenza (2). Anzi. È la conoscenza a svelare la vanità di un tale sentimento e a permettere all’uomo di ergersi contro la paura della morte (3). Da qui seguono le lodi a colui che, coraggiosamente, muore affrontando la morte con onore e forza, a differenza invece di colui che prega e si dispera sino all’ultimo istante perché non desidera scomparire per sempre (4). Qui si erge una prima critica che moralmente Schopenhauer rivolge alle religioni et similia:
Come potrebbero, ci si può chiedere qui incidentalmente, l’amore sconfinato della vita e lo sforzo di conservarla a tutti i costi il più a lungo possibile, essere considerati bassi, spregevoli, e similmente dai seguaci di ogni religione come di questa indegni, se la vita fosse il dono di dèi benigni, da riconoscere con gratitudine?
“Approfittando” della riflessione circa la Volontà di vivere e l’attaccamento alla terrena esistenza, Schopenhauer compie un ulteriore passo in avanti, esponendo tematiche dal chiaro rimando epicureo. Il filosofo, infatti, pone in essere una considerazione dai forti tratti comparativi: se il timore della morte è rappresentato dalla consapevolezza che un giorno noi “non saremo”, che dire di tutto quel tempo in cui ciascuno di noi “non è stato”? In pratica, Schopenhauer sostiene come il “non essere dopo la morte” non sia diverso e/o da intendersi «più lacrimevole» del “non essere stato prima della nascita”, in quanto, esattamente come una infinità seguirà dalla nostra dipartita, un’altra infinita ha già anteceduto la nostra nascita. Il problema, quindi, risiede in questo “intermezzo”. Intervallo in cui nasciamo e sviluppiamo la conoscenza della morte. Qui le risposte possono essere di due tipi. Una prima di carattere metafisico: per tutto il tempo in cui non si è stati, ognuno di noi altro non è stato che i vari io che sono stati gli altri. La seconda di carattere empirico contrasta con la precedente, in quanto ci è impossibile accettare l’idea che siamo esistiti quando (empiricamente) non siamo mai, per l’appunto, stati. Questa considerazione ci riporta nuovamente al punto di vista del filosofo:
Ma allora mi posso consolare del tempo infinito dopo la mia morte, in cui non sarò, con il tempo infinito in cui già non esistevo, come uno stato ben consueto e in verità comodissimo. Perché l’infinità “a parte post” senza di me non può essere più terribile dell’infinità “a parte ante” senza di me, dato che le due non si distinguono per altro che per il sopravvenire fra loro di un effimero sogno di vita.
È, quindi, assurdo concepire e considerare il “non essere” un male. Anche perché, ogni male, esattamente come ogni bene, richiede la vita e la coscienza. Entrambe cessano con la morte. Quindi, nella morte non possiamo percepire alcun male. Dunque, il “non essere” non è un male – cfr. Epicuro -. Inoltre, è opportuno fare ancora una precisazione. Quanto appena detto è sicuramente corretto ma si tenga conto del fatto che non è tanto dalla coscienza che si sviluppa la paura della morte ed il considerare “il non essere” un male. Dobbiamo ricordare quanto sostenuto in precedenza: è dalla Volontà di vivere che si origina il desiderio di fuggire dalla morte. Desiderio che riempie di voglia di vita ciascun essere vivente. Ecco perché Schopenhauer parla di dualismo: è necessario distinguere la “parte volente” dalla “parte conoscente”.
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