QUORUM NON RAGGIUNTO: FRENATA DEL “DIRETTISMO” POLITICO.


Si è fermata attorno al 32% circa l’affluenza alle urne per questo (tanto discusso) referendum abrogativo, inerente le concessioni per l’estrazione del petrolio e dei gas naturali nel Mar Mediterraneo. Come da dettato costituzionale, per convalidare il voto espresso – favorevole o contrario – era obbligatoriamente necessario che si esprimesse il 50 + 1 degli aventi diritto. Ora è e sarà tempo di dichiarazioni; come quella del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, dichiaratosi ovviamene soddisfatto, durante la conferenza stampa convocata a Palazzo Chigi, per la vittoria del no:

Ha vinto chi lavora sulle piattaforme. […] Gli sconfitti non sono i cittadini che sono andati a votare: chi vota non perde mai. Massimo rispetto per chi va a votare. Ma gli sconfitti sono quei pochi, pochissimi consiglieri regionali e qualche presidente di regione che ha voluto cavalcare un referendum per esigenze personali politiche.

Una cosa resta, comunque, certa – almeno dal mio punto di vista -: siamo un popolo che fatica moltissimo a comprendere il significato della democrazia diretta. E giungo a questa conclusione sulla base di due mie personali argomentazioni – non esenti, per carità, da critica alcuna -.

In primis: manca nel panorama politico italiano – e mi rivolgo soprattutto a quel background culturale che dovrebbe fare da riferimento sia per chi è chiamato a governare sia per chi è chiamato a votare – quel profondo spirito di convivenza pacifica e democratica che dovrebbe essere alla base del corretto funzionamento di un qualsivoglia Stato di Diritto. Sul lato dell’elettorato attivo, si scorgono, fin da subito, all’interno del Web, epiteti, offese e, addirittura, minacce espresse e lanciate reciprocamente tra tutti coloro che sono stati coinvolti – forse troppo sentimentalmente – dalla questione dibattuta. Possiamo riformulare i soliti ragionamenti espressi fino all’infinito: le piattaforme virtuali prediligono, molto spesso, lo slang, la distanza fisica e l’anonimia tra gli interlocutori possono mistificare il linguaggio ed i contenuti stessi della comunicazione, e così discorrendo. Tutti ragionamenti pienamente validi e meritevoli sempre d’esser menzionati, ma resta il fatto che una gran fetta del “popolo della Rete” abbia quasi immediatamente evidenziato – quasi fosse una cartina tornasole – il reale livello di spirito democratico e responsabilità civica diffusa nel nostro paese.

Come se non bastasse, le nostre avanguardie culturali di riferimento, ovvero i partiti politici, i movimenti, i leader, ecc., fomentano l’odio, esasperano gli animi e si rendono complici della “pochezza” culturale che negli ultimi anni sta dilagando e viziando la nostra logica comunicativa. Tanto per fare un esempio, il twitt del “renziano” Ernesto Carbone – con tanto di hashtag #ciaone -, oltre che fuori luogo per motivi anche di natura etica – l’irridere la sconfitta di un’espressione di voto all’interno di un referendum popolare è oltremodo assurdo -, evidenzia numerose e preoccupanti lacune riguardo al non saper nemmeno gestire la comunicazione politica strincto sensu.

Twitt #01

In secundis, il referendum abrogativo continua di per sé ad essere uno strumento democratico politicamente e tecnicamente difficile non solo da (saper) esercitare, ma anche da saper leggere ed interpretare. In termini di “purismo politico” saremmo stati – nel caso fossimo tutti cittadini illuminati dalla ragione e dal senso critico – tutti soddisfatti se il no – resto fermo al referendum sulle trivelle – si fosse raggiunto attraverso una vittoria concreta dei voti espressi come contrari e non per merito del non mero raggiungimento del quorum richiesto dalla legge. Il problema resta proprio il rapporto tra affluenza e quorum medesimo. Molti, moltissimi dei cittadini che, recandosi alle urne, avrebbero optato per il no, hanno logicamente deciso di non andarci proprio per non permettere alla soglia di alzarsi.

In politica vigono da secoli i tatticismi e gli accorgimenti strategici; resta questa una componente antropologica dell’essere un cittadino. Ma è, in parte, proprio su questa questione che si apre poi un problema di incapacità di lettura e d’interpretazione della democrazia diretta: non è possibile – o, ad ogni modo, è particolarmente arduo riuscire a farlo – leggere con chiarezza il flusso elettorale. Quanti dei cittadini che non si sono recati alle urne non si sono effettivamente recati per il semplice fatto di non voler, così facendo, favorire il quorum? Quanti, invece, erano disinformati, impediti e/o semplicemente disinteressati? Quanto pesa il mero astensionismo o quanto, in termini percentuali, la non affluenza può assumere, in termini politici, un significato di apprezzamento o di diniego nei confronti dell’intero sistema governativo? Questa è sociologia della comunicazione. Questa è comunicazione politica. Non l’hashtag “twittato” in maniera infantile.

Ma una lettura critica e analitica deve esser posta in essere anche sull’altro versante. Questo referendum era sconosciuto ai molti e stava passando in sordina. Negarlo sarebbe un’aporia. Se non fosse scoppiato il caso politico della ex ministra Guidi sarebbe rimasto un tema dal (solo) connotato ambientalista. Lo si è reso, invece, politico e lo si è, volutamente ed esplicitamente, plasmato di una valenza  molto più  marcata: un’occasione per attaccare a chiara voce l’operato dell’Esecutivo. E non c’è assolutamente niente di male o di sbagliato in tutto questo. Anzi: è democraticamente apprezzabile che una infrastruttura come il referendum – dedita a legittimare la partecipazione del popolo alle questioni politiche concernenti la res publica – venga utilizzata (anche) per manifestare lo stato d’animo della popolazione a chi governa e a chi prende decisioni. Ma la lettura, allora, anche in questo caso, deve essere oggettiva e approfondita. Quante persone sono state – azzarderei quasi a dire – improvvisamente attratte da questo referendum solo a seguito del caso Guidi? Quante hanno deciso di partecipare e/o di votare solo sulla base delle proprie appartenenze politiche o – nel caso estremo – nel rispetto di un proprio e personale “indottrinamento politico”? Quanto ha pesato la coscienza critica del singolo individuo? Quanto, invece, le strategie dei partiti e dei movimenti di appartenenza?

Risulta doveroso, oramai, dare un definitiva conclusione a questo modo provinciale di porsi nei riguardi della politica e di fare comunicazione politica. La democrazia diretta, ovvero la possibilità di esercitare direttamente una personale ingerenza sulle questioni concernenti la res publica, necessità di un profondo senso di responsabilità. Di responsabilità civica.

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