Tra i numerosi contributi, di cui possiamo avvalerci in campo sociologico per la comprensione analitica della realtà sociale lato sensu, quelli fornitoci da Thomas Luckmann e Peter Ludwig Berger, all’interno dell’opera The social construction of reality (1966), risultano essere fra i più esaustivi per quanto concerne sia la realtà soggettiva che quella oggettiva. Ed è proprio su quest’ultima che dedicherò questo breve articolo.
L’intuizione fondamentale dei due sociologi austriaci – naturalizzati americani – risiede nell’aver concepito il fondamento della realtà sociale alla pari di un circuito dialettico continuo, chiuso e caratterizzato da una profonda reciprocità comunicativa tra gli interlocutori coinvolti nel rapporto interrelazionale. La “dialettica sociale” proposta assume una struttura di questo tipo:
Il punto di partenza è, generalmente, quello della realtà soggettiva, la cui formazione dipende continuamente sia dal processo di socializzazione primario sia da quelli secondari a cui l’individuo è sottoposto nel corso della propria “esistenza sociale”. Ma su quest’argomento tornerò solo in un secondo momento, in un altro articolo. Ciò che adesso è, invece, importante sottolineare è come l’interazione sociale di natura dialogica, che trova sviluppo ed applicazione soprattutto nel contatto diretto – tramite il quale più soggetti possono fare della libera comunicazione face to face -, rappresenti lo strumento di giustificazione e di legittimazione sia dell’esistenza sia del funzionamento medesimo di suddetto circuito dialettico. Nel momento stesso in cui le interiorizzazioni soggettive di un individuo vengono esteriorizzate, prende vita il vero e proprio rapporto dialogico. All’interno dell’interazione sociale, molte di queste esteriorizzazioni vengono oggettivate dai vari interlocutori, anche per merito di tutta una serie di variabili – come l’espressione facciale, il tono di voce adottato, la gestualità et similia -, permettendo così una sempre più continua e profonda comprensione ed agnizione dell’io sociale di chi sta parlando. Per semplificare tutto questo ragionamento, potremmo fare un esempio davvero molto banale.
Ipotizziamo di stare conversando con un cittadino inglese, il quale parla e comprende correttamente la lingua italiana – di modo da evitare, sul piano concettuale, eventuali incomprensioni dovute alla sintassi e/o alla fonetica, ecc. -. Presupponiamo che durante questa conversazione, decidiamo di dare una sempre più chiara e marcata idea del nostro io sociale, arrivando, per esempio, a manifestare la fisionomia prettamente politica del nostro essere. Trattiamo l’esempio di dichiararci libertari, anarchici o, comunque, arditamente avversi ad ogni realtà monarchica. Se il nostro interlocutore si dovesse indignare o assumere un atteggiamento ostile – di tipo linguistico o anche percepibile sin dalla sola e mera gestualità del corpo -, noi capiremmo di aver affrontato questo argomento in un modo tale da averlo fatto sentire offeso. Capiremmo che, probabilmente, per come i cittadini inglesi percepiscono la loro realtà oggettiva, la Corona è questione di assoluta sensibilità e comprenderemmo allora in quale maniera sia necessario interloquire con quest’ultimi su tale argomentazione nel caso non volessimo farli arrabbiare nuovamente.
La formazione delle “tipizzazioni oggettive” rappresenta, difatti, proprio lo step dialettico successivo. Il capire quanto sia o meno – dipende da che tipo di relazione desideriamo avviare – necessario don’t preach down the Crown con un interlocutore inglese, pre-indirizzerà, inevitabilmente, tutte le conversazioni simili che, in futuro, potremo nuovamente stringere con altri soggetti simili – indipendentemente da quale sensazione vorremo suscitare nel “collega” anglosassone -; questo perché abbiamo assimilato ed oggettivato una componente soggettiva della realtà sociale inglese: il “non offendere la Corona”. Le tipizzazioni oggettive finiscono col divenire col tempo, rafforzandosi per consuetudinarietà, le istituzioni oggettive e storicizzate su cui si fonda de facto l’intero assetto sociale; trattasi delle regole etiche e comportamentali base e di riferimento per l’apparato sociale preso in esame.
Ma, come detto, la dialettica sociale ha una struttura circolare e continua: le stesse tipizzazioni oggettive sono soggette, durante proprio le varie ed innumerevoli interazioni sociali che prendono vita e si sviluppano nel corso degli anni, ad un vero e duraturo processo di re-interiorizzazione soggettiva; questo perché l’individuo fa sempre suoi tutti quegli aspetti che l’altro interlocutore, durante la conversazione, ha esposto e manifestato. Le interazioni non sono, dunque, altro che continui scambi, assimilazioni e manifestazioni continue dei vari io sociali – ovvero delle varie realtà soggettive – degli individui coinvolti nel rapporto dialogico. Quindi, le tipizzazioni mutano, vengono continuamente rimesse in gioco durante una conversazione, si sviluppano, vengono integrate di nuovi fattori e nuove variabili, ecc. Questo fa sì che il background culturale di una società sia sempre soggetto a continui mutamenti.
Dobbiamo, ad ogni, modo tener sempre presente che lo sviluppo stesso dell’interazione non è, comunque, mai lineare. A questi contribuiti di Luckmann e Berger sarebbe doveroso aggiungere poi quelli di altri grandi studiosi – come Goffman o Schütz, tanto per citarne due -, proprio per meglio comprendere tutti quei tatticismi e tutte quelle strategie comunicative tramite le quali gli interlocutori possono decidere quanto del proprio io sociale mostrare o meno durante una conversazione, mistificando e/o indirizzando, così facendo, in un particolar modo, il dialogo medesimo. Ma non è ora il momento di affrontare anche queste tematiche.
Ritornerò nuovamente su questi argomenti, per trattare anche la realtà soggettiva ed altre questioni inerenti i contribuiti di questi due illustri sociologi.
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