O, forse, sarebbe il caso di togliere il punto interrogativo e di rendere il tutto alla stregua di una forte e chiara esclamazione? «Dio è morto!» – tanto per rendere omaggio a quanto annunciato da Friedrich Nietzsche ai tempi della stesura della Gaia Scienza -. Al di là di questa mia iniziale provocazione, stando a quanto rilevato da alcuni sondaggi e campionamenti effettuati dall’Istat, pare che anche la religione lato sensu stia attraversando una vera e propria fase di decadenza socio-culturale all’interno del nostro Paese. Non solo, dunque, le identificazioni partitiche si stanno inevitabilmente sgretolando in Italia; anche il culto – ampiamente inteso – non riesce più né a svolgere né a rappresentare quella funzione sociale di aggregazione e di referente valoriale che, fino ad un buon ventennio fa, ancora le apparteneva. La conclusione cui è giunto il professor Marzio Barbagli, analizzando alcuni dati campionari, sembrerebbe, infatti, non lasciare spazio alcuno a dubbi o a controverse considerazioni:
Dunque, né l’invecchiamento della popolazione, né l’arrivo di milioni di immigrati, né la lunga crisi economica hanno arrestato il processo di secolarizzazione. E neppure il carisma di due papi eccezionali – Giovanni Paolo II e Francesco I – è bastato a riportare gli italiani nelle chiese e nelle parrocchie. La partecipazione religiosa ha raggiunto oggi il livello più basso nella storia del nostro paese. La fortissima flessione che ha avuto luogo fra i ventenni fa pensare che il processo continuerà a lungo e avrà effetti rilevanti sulla vita politica e sociale. Non direttamente sull’esito delle elezioni, perché, da quando è scomparsa la Democrazia Cristiana, la pratica religiosa ha smesso di essere un buon predittore delle scelte di voto. Ma certamente sulla vita intima, domestica, sul modo in cui si formano e si rompono le famiglie, le coppie etero e omosessuali, sui comportamenti sessuali e riproduttivi, sulle decisioni riguardanti la fine della vita.
Ma come si è giunti a siffatta conclusione? Per cercare di capire come possa essere cambiato lo “stato di salute” della religione – sempre ampiamente intesa – all’interno di una nazione, l’indicatore più adatto – e sul quale si focalizza maggiormente l’attenzione e l’interpretazione analitica dei dati – è rappresentato dall’intensità del grado di frequenza tramite la quale i membri di una popolazione si recano presso un luogo di culto (con una precisa scadenza e/o periodicità temporale). Stando alle informazioni pervenuteci dall’Istat, per l’appunto, risulta che tale frequenza – equiparata al numero di persone che si recano a messa almeno una volta a settimana – sia in passato diminuita nell’arco temporale che va dal 1956 al 1981 per poi rimanere costante – o avere solo deboli inversioni di tendenza – durante il decennio successivo (1981-1991 circa).
Ma quello che, ovviamente, ci interessa maggiormente è focalizzare l’indagine sull’ultimo ventennio. Complici (forse) l’invecchiamento della popolazione, la regressione della natalità, le forti ondate migratorie et similia, nell’intervallo che va dal 1995 al 2015, la percentuale di coloro che frequentano la messa almeno una volta alla settimana è fortemente diminuita. Siamo, difatti, passati dal 39,7% del 1995 all’attuale 29%, calcolato solo durante lo scorso anno. Si tratta, più o meno, di circa mezzo punto di perdita registrata annualmente. E questo “crollo” si costituisce anche di una forte “omogeneità comportamentale di matrice territoriale”; nel senso che si è verificato in tutte le regioni d’Italia, cosicché anche le distanze territoriali risultano essere praticamente nulle. Il maggior numero di praticanti – esattamente come già rilevato vent’anni fa – si addensa ancora nel Mezzogiorno.
Una variabile capace di influenzare la frequenza di partecipazione al culto e, al contempo, di far oscillare le varie percentuali calcolate e rilevate è la fascia di età dei praticanti (o presunti tali). Anche in questo caso, i risultati dell’Istat appaiono come assolutamente incontrovertibili: nel 1995 nella fascia di età compresa tra i 6 e gli 11 anni si registrava un vero e proprio picco di partecipazione alla tematica religiosa. Questa percentuale diminuiva bruscamente nelle fasce successive, fino a raggiungere il grado più basso in quella tra i 30 ed i 39 anni. Subiva poi una tendenza inversa con un risalire, quasi esponenziale, fino al compimento dell’ottantesimo anno, per poi diminuire nuovamente. Quando abbiamo parlato di fascia di età intesa come parametro capace d’influenzare il grado di partecipazione al culto religioso lato sensu, avremmo però dovuto distinguere tra “generazione di appartenenza” ed “età” strincto sensu. Ad esempio, analizzando proprio questi ultimi dati appena menzionati, il fatto che coloro che avevano tra i 60 e gli 80 anni si recassero più dei giovani a messa dipendeva, all’epoca, proprio dalla generazione di appartenenza, in primis. Facile ipotizzare, infatti, che fossero stati individui cresciuti in un periodo storico nel quale la religione possedeva radicate radici culturali all’interno del contesto sociale di riferimento. In secundis, anche l’età vera e propria sprona (tutt’oggi), molto spesso, gli anziani ad avvicinarsi a Dio, anche a causa di tutta una serie di motivazioni legate, ad esempio, alla salute deficitaria e/o alla debolezza fisica.
E, ricollegandomi proprio a quest’ultima frase, nell’ultimo ventennio soltanto nella fascia di età degli anziani non si è (ancora) assistito a quell’enorme crollo della partecipazione alla vita religiosa da parte dei cittadini italiani. Proprio così. La pratica religiosa, appunto, non è soltanto decaduta in tutte le regioni – come già sostenuto ad inizio articolo -, ma, bensì, essa si trova in una perenne regressione anche in riferimento a quasi tutte le fasce di età della cittadinanza. Questa regressione è fortissima, in termini percentuali, nella classe tra i 12 ed i 19 anni e continua ad esserlo anche in quella successiva – compresa tra i 20 ed i 29 anni -, a dimostrazione di come l’attuale ricambio generazionale non voglia frequentare più i luoghi di culto. Ma c’è di più. Tutto questo fa presagire un decadimento duraturo dato che oggi questa generazione di giovani pare, dunque, non assegnare alla teologia alcun ruolo predominante all’interno delle proprie vite; ed, in termini di generazione di appartenenza – proprio per quanto appena sostenuto poco fa -, i contesti sociali futuri ne potrebbero profondamente risentire. Dati alla mano, fra i giovani, la quota di partecipazione ad un luogo di culto è calata dal 26,8% del 1995 all’attuale 14,6% dell’anno scorso. Una caduta libera.
Vi lascio anche il link dell’articolo del professor Barbagli, nel caso desideraste approfondire l’argomento.
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