GLI ILLUMINISTI COME PRECURSORI DELL’ANIMALISMO?


Il libertinage francese settecentesco si rispecchia in una ben precisa icona letteraria: l’Encyclopédie. Durante il XVIII secolo, una delle tematiche filosofiche maggiormente discusse – ed attorno alla quale si poté assistere all’evolversi di un vero e proprio disquisire “da salotto culturale” – fu l’âme, ovvero l’anima. Un concetto di anima ampiamente intesa, ad ogni modo. Difatti, se esaminaste l’Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers di DiderotD’Alembert, giunti alla parola âme, notereste come la trattazione, su tale tema, si divida in due tronconi di ricerca ed indagine. Da una parte si discute circa l’âme des plantes – ovvero, l’anima delle piante -; vengono qui esposte e descritte alcune riflessioni particolarmente sui generis – proprio a causa dell’argomento trattato -, tra le quali possiamo annoverare quelle di Jean Baptiste La Quintinie (1626-1688), secondo il quale l’anima di un vegetale risiedeva nel centro esatto del proprio tronco, di Marcello Malpighi (1628-1694), che collocava l’anima di una pianta lungo le sue stesse fibre legnose, di Francesco Redi (1626-1697), studioso che teorizzò l’esistenza di una componente sensoriale costituente gli esseri vegetali, et similia – sono, addirittura, menzionati alcuni pensatori particolarmente “antichi” e/o “datati” come TeofrastoColumella e (il più conosciuto) Plinio il vecchio, ad esempio -. Dall’altra parte, invece, troviamo la trattazione dell’âme des bêtes, ovvero l’anima degli animali. Ed è proprio questo l’argomento su cui concentreremo adesso la nostra attenzione. Lasciamo da parte, quindi, per il momento la trattazione dell’anima umana – ho, difatti, intenzione di approfondire quell’argomento in un secondo momento, in un altro articolo – e cerchiamo di comprendere quali posizioni filosofiche assunsero i philosophes (enciclopedisti e non) nei riguardi del mondo animale. Soffermerò la mia attenzione – considerando anche i limiti “spaziali” a cui sono tenuto “ubbidire”, data la natura di questo blog – su due contributi in particolare.

Il titolo dell’articolo è, effettivamente, particolarmente fuorviante e, in parte, abbastanza provocatorio. Parlare di animalismo in seno alla Francia settecentesca è una forzatura concettuale tutto sommato molto forte (oltre che, forse, anche fuori luogo). Me ne rendo ben conto. Consideratelo, perciò, alla stregua di una sana ed innocente provocazione intellettiva. Se volessimo definire un quadro generale di riferimento per tentare di descrivere, accuratamente, cosa venisse realmente inteso col termine di “anima animale” presso i filosofi del libertinismo francese, potremmo prendere in considerazione un minimo comune denominatore condiviso dai vari philosophes dell’epoca: la critica al cartesianesimo. Non sto affermando che tutti gli illuministi del XVIII secolo furono feroci critici e denigratori delle posizioni filosofiche di Descartes e/o dei cartesiani in generale; ma è indubbio che una grande percentuale dei medesimi non si risparmiò né nel prendere le distanze dalla res cogitans cartesiana né nell’elemosinare, nei riguardi della medesima, critiche e repliche feroci.

Una prima posizione filosofica di svolta in seno a tale trattazione fu assunta da Jean Meslier. Da sostenitore sia della mortalità che della materialità dell’anima umana – ripeto che tutto questo sarà poi oggetto di uno studio approfondito in un articolo futuro -, il curato di Étrépigny affermava come non vi fosse distinzione alcuna tra l’anima di un uomo e quella di un animale, il quale, quindi, veniva concepito non come una mera «macchina inanimata» incapace di provare sentimenti e/o di elaborare nozioni di natura intellettiva, ma, bensì, come essere senziente dotato di capacità volitiva. Prendendo spunto dal Testament:

[.. ..] e così i cartesiani si rendono ridicoli, quando, servendosi di un pretesto così sciocco e basandosi su motivazioni tanto inconsistenti, affermano che gli animali mangiano senza provare alcun piacere, gridano senza sentir alcun dolore, non sanno niente, non desiderano niente, non temono niente. [.. ..] Come, signori cartesiani, per il solo fatto che gli animali non sanno parlare come voi e non sanno esprimersi con il vostro linguaggio, per comunicarvi i loro pensieri e farvi conoscere il loro dolore, il loro dispiacere e i loro mali, o iloro piaceri e le loro gioie, voi li considerate semplici macchine inanimate, incapaci di conoscere e di sentire? [.. ..] Non vi basta dunque vedere che gli animali hanno un loro naturale linguaggio, che all’interno di una stessa specie si capiscano l’un l’altro, si chiamano e si rispondono l’un l’altro? Non vi basta vedere che essi fanno società tra loro? [.. ..] Pensate che essi si riproducano senza provar piacere? Che bevano e mangino senza appetito, senza fame o sete? Che facciano le moine ai loro padroni senza amarli e senza conoscerli? Che eseguano gli ordini dei loro padroni senza sentire la loro voce e senza sapere ciò che essi dicono loro? Che scappano senza temere niente e che gridano senza dolore, quando vengono picchiati?

L’altra posizione “animalista” – continuate a perdonarmi l’uso di tale termine -, oltre che profondamente anti-cartesiana, che voglio descrivere, è quella che fu assunta da Voltaire. L’illuminista di Parigi, in quanto deista, fu sostenitore sia dell’immortalità che dell’immaterialità dell’anima lato sensu – prendendo, quindi, profonde distanze, a tal riguardo, dalle posizioni di Meslier -. Una forte critica alla riflessione cartesiana è tutt’oggi possibile coglierla sfogliando le pagine del Dictionnaire philosophique, in riferimento proprio all’art. Bêtes ivi inserito:

Che vergogna, che miseria aver detto che le bestie sono macchine prive di conoscenza e di sentimento, che fanno sempre le loro operazioni allo stesso modo, che non imparano nulla, non perfezionano nulla, ecc.! [.. ..] Quel cane da caccia che hai addestrato per tre mesi, dopo questo tempo non ne sa forse più di quanto non sapesse prima delle tue lezioni? Il canarino al quale insegni un’aria la ripete forse all’istante? Non impieghi un tempo considerevole a insegnargliela? Non ti sei accorto che si sbaglia e si corregge? [.. ..] Dei barbari afferrano questo cane, che supera tanto l’uomo in amicizia; lo inchiodano su una tavola, e lo sezionano vivo per mostrarti le vene meseraiche. In lui scopri tutti quegli stessi organi sensori che sono in te. Rispondimi, meccanicista, la natura ha forse sistemato tutte le molle del sentimento in questo animale perché non senta? Ha dei nervi per essere impassibile? Non supporre tale impertinente contraddizione nella natura.

La critica volterriana si fondava sia su di una mera logica di pensiero e di analisi (sia induttiva che deduttiva),

Forse perché ti parlo, giudichi che io abbia sentimento, memoria, idee? Bene! Non ti parlo; mi vedi entrare in casa con aria afflitta, cercare ansiosamente una carta, aprire uno scrittoio dove mi ricordo d’averla rinchiusa , trovarla, leggerla con gioia. Giudichi che io abbia provato il sentimento dell’afflizione e quello del piacere, che ho memoria e conoscenza. Applica allora il medesimo giudizio a quel cane che ha perduto il suo padrone, l’ha cercato per tutte le strade con guaiti dolorosi, torna a casa, agitato, inquieto, sale, scende, va di camera in camera, trova finalmente nello studio il padrone che ama, gli testimonia la sua gioia con la dolcezza dei suoi guaiti, con i suoi salti, le sua carezze.

sia sull’apologia della pratica deista – dove il concetto di anima era assimilato e concepito ipso facto in quanto tale, sulla base cioè della sola consapevolezza aprioristica della sua stessa trascendenza divina, e senza che tale consapevolezza imponesse e/o obbligasse alcun individuo a risalire all’Essere Supremo col fine ultimo di comprendere e studiare ontologicamente l”âme dell’uomo. Si tratta di un “compromesso gnoseologico” del voltarianisme che approfondirò nella trattazione del deismo volterriano -:

Ma i maestri della scuola domandano che cosa sia l’anima delle bestie. Non capisco questa domanda. Un albero ha la facoltà di ricevere nelle sue fibre la linfa che circola, di dispiegare i boccioli delle sue foglie e dei suoi frutti; mi chiedereste che cosa sia l’anima di questo albero? Esso ha ricevuto questi doni; l’animale quelli del sentimento, della memoria, di un certo numero di idee. Chi ha fatto tutti questi doni? Colui che fa crescere l’erba nei campi, e fa gravitare la terra attorno al Sole.

Mentre Meslier, dunque, fondava la propria idea di anima animale sulla materialità dell’anima stessa – ma restava questo un concetto di materia distinto da quello della res cogitans cartesiana (e lo vedremo in un’altra occasione) -, Voltaire tendeva, dal canto suo, a giustificare (obbligatoriamente) la sua idea di âme des bêtes per mezzo della morale naturale.

Nel caso poi foste interessati anche ad approfondire – per un puro appagamento filologico – la trattazione dell’anima all’interno dell’Encyclopédie, vi lascio il link di un sito che potrebbe fare davvero al caso vostro.

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