Le omologazioni comportamentali del Web – mi riferisco, ovviamente, al “Mondo dei SNS” – non finiranno mai di stupirmi. L’asservimento alla condivisione ed alla stereotipizzazione sono le uniche vere fondamenta della Rete. O, ad ogni modo, sono quelle sulle quali continuiamo ad affidarci erroneamente. Un paio di anni fa, “l’agorà virtuale” era letteralmente spaccata in due fazioni: da un lato, gli apologeti del Je suis Charlie e, dall’altro lato, i giustificazionisti del “ve la siete cercata!”. Oggi, a seguito delle recenti vignette pubblicate dalla redazione giornalistica Charlie Hebdo in riferimento al terremoto che ha colpito il Centro Italia, quella situazione dimostra di essere ancora la stessa di allora. Non è assolutamente cambiata. È sempre la solita impasse comunicativa: c’è chi continua ad ergersi a difensore e paladino della libertà di espressione e di opinione – credendoci poi chissà quanto – e c’è chi continua a denigrare lo sprezzo e la violenza verbale e visiva di quanto pubblicato dal sopracitato giornale. Si sta assistendo ad una diatriba tra chi afferma che la satira, in quanto tale, non debba essere mai soggetta a giudizi di natura morale e/o etica e chi, al contrario, va invece sostenendo che la satira non possa mai offendere liberamente e/o deliberatamente. Io, personalmente, sviluppo la mia riflessione partendo da una mia personale e modesta opinione; si sta discutendo sul nulla, dato che, invece, si dovrebbe ragionare – il condizionale è usato per motivi reverenziali nei riguardi della vostra opinione, formulatasi in merito – in riferimento ad una definita premessa di fondo per analizzare con lucidità quanto accaduto: quella di Charlie Hebdo non è satira – raramente lo è stata -, ma solo un estremo e mero infotainment. Ma procediamo con ordine.
Ci si appella sempre ed ovunque alla libertà di espressione del pensiero ed alla libertà di opinione – i due precetti su cui trova giustificazione concettuale e legittimazione giuridica anche la libertà di stampa (compresa, quindi, anche quella di far satira giornalistica) -. Ma, a mio modesto parere, si è talmente radicalizzato il riconoscimento – che resta sempre doveroso all’interno di un qualsivoglia Stato di Diritto – di tali libertà che si è finiti col rendere quest’ultime estremiste e amorali. Snaturandole e svuotandole così, di conseguenza, di tutti quei valori e precetti che nel corso dei secoli hanno consentito la formazione e la posa in essere dell’ordinamento giuridico su cui si erge quella determinata Nazione. Si enfatizza talmente tanto la libertà di cui siamo investiti da non chiederci se quello sia il modo più opportuno o corretto di esercitarla; ed il dramma è che siffatto quesito proprio non vogliamo porcelo perché ci avvalliamo – ancora ed ancora ed ancora – del fatto di essere, per l’appunto, liberi. Con buona pace per quella tanto (dal sottoscritto) decantata “responsabilità civile”, che resta l’unica vera ancora di salvezza per l’intera cultura occidentale. Non fraintendetemi: Charlie Hebdo, a meno che non violi norme costituzionali o simili, rimane e resta sempre libero di pubblicare tutto quello che più gli aggrada – e che più gli possa permettere di vendere maggiori copie del proprio giornale -. Esattamente come tutti i cittadini francesi, e non solo, sono assolutamente liberi di scegliere se comprare o denigrare il giornale medesimo. Nessuna forma di censura deve essere imposta. Soprattutto in Francia, Paese che molto spesso mi viene presentato come essere la “Patria dei Diritti Civili”, nonostante io continui a considerare quel suo stesso laicismo istituzionale e quelle sue stesse controverse fratture sociali dannatamente pericolose per l’intero assetto repubblicano, oltre che testimonianza di un riconoscimento del Diritto lato sensu molto “fittizio” e di “facciata” in alcune situazioni socio-politiche. Ma tralasciando tutte queste questioni prettamente di natura etica, riprendiamo quanto esposto ad inizio articolo.
Ho sostenuto che l’arte giornalistica di Charlie Hebdo non sia riconducibile alla satira strincto sensu. Desidero argomentare questa mia personale presa di posizione. L’obiezione che mi si potrebbe avanzare contro è che la satira debba essere cinica, spietata, violenta e “dura” da digerire e sopportare proprio perché solo in questo modo può smuovere le coscienze e promuovere acculturazione e cognizione di causa. Ed è vero, anzi verissimo. La mia difficoltà cognitiva, infatti, risiede proprio in questo passaggio: come è possibile non accorgersi che quella di Charlie Hebdo non sia satira? Si coglie perfettamente il significato ontologico di un concetto (la satira) che poi però viene mistificato volutamente attraverso un riconoscimento deviato e fuorviante del suo stesso contenuto. Queste vignette promuovono una reale comprensione di quanto accaduto? Queste vignette impediscono la proliferazione di alcuni falsi luoghi comuni – del tipo “pizza, mandolino e mafia” -? Queste vignette consentono al lettore di comprendere le reali cause di quanto avvenuto e di spostare l’attenzione sui reali artefici del disastro medesimo – e badate bene che il riferimento alla mafia è presente solo e soltanto nella seconda vignetta, pubblicata a seguito della diatriba mediatica diffusasi per il Web -? Questa è stata davvero la situazione o il contesto o il momento o il modo – e via discorrendo – più congeniale e consono per rappresentare graficamente quanto accaduto? Non sarebbe stato meglio – proprio da un punto di vista vignettistico – attirare l’attenzione “direttamente” sulle istituzioni e/o sul Governo, lasciando in disparte il sangue ed i morti? Oppure – come è ovvio che sia stato – si è optato per tale “soluzione visiva” in risposta ad una comune e semplicistica logica di framing? Siamo davvero certi che da un punto di vista della mera elaborazione mentale, a seguito della visualizzazione di queste due vignette, il pensiero del lettore verta immediatamente sul condannare l’operato delle istituzioni? O, al contrario, resta proprio l’immagine in sé a ricoprire il fulcro principale di tutta la dinamica comunicativa, portando a fare ragionamenti del tipo “i soliti italiani”?
Cercate di comprendermi: non voglio giudicare moralmente l’operato di Charlie Hebdo. Anche perché, personalmente, questa rivista non ha mai suscitato il mio interesse, fin dai tempi delle raffigurazioni su Maometto. Ci tengo solo a precisare che questa non può in alcun caso essere considerata satira. O almeno a mio parere, per carità. Perché non accultura. Perché non sviluppa coscienza critica e/o cognizione di causa. Perché si avalla solo e soltanto della mera raffigurazione visiva – e ricordate che, in ambito comunicativo, vi sono numerosissime riflessioni che potrebbero essere sviluppate in seno all’immagine intesa in senso lato -. Questo modus operandi è giustificato solo sulla base di un radicalizzato ed opportunistico infotainment, dove la mercificazione della notizia, avallata dall’immagine, serve e solo e soltanto a perseguire un unico primario obiettivo: vendere.
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