Ho affrontato molte volte il concetto di “filosofia militante” in seno alla trattazione del libertinage francese del Settecento. Ho, difatti, più volte sostenuto il principio secondo cui il filosofeggiare dei membri dell’allora parti philosophique non si riducesse ad un mero formulare concezioni filosofiche astratte e/o finalizzate (esclusivamente) ad un vanitoso e personale appagamento personale. Tutt’altro. Ogni tematica formulata e divulgata doveva concernere concreti e tangibili campi d’interesse sociale, ponendo, per l’appunto, l’uomo al centro della trattazione medesima, con l’intento di apportare così effettivi cambiamenti all’intera realtà socio-politica di riferimento – o, ad ogni modo, l’intento doveva esser quello di farsi portavoce di argomentazioni che potessero essere recepite come valide alternative alla secolarizzata organizzazione istituzionale, sociale e politica del Paese -. All’interno di questo enorme “calderone” di pensatori ed idee, colui che incarnò, più di ogni altro filosofo, con assoluta pienezza, un siffatto ruolo di concreta avanguardia culturale fu François-Marie de Arouet, meglio conosciuto col nome di Voltaire. Difatti, uno dei molteplici epiteti con il quale, sia in letteratura che in filosofia, si è soliti indicare il libertino di Parigi è quello di philosophe engagé. Facciamo adesso un po’ di sana e rapida filologia storica per comprendere meglio il perché di tale pseudonimo. Partiamo dal “caso Calas“.
Si trattò di un particolare atto di ingiustizia sociale e giuridica, dai connotati sia religiosi che politici, mossa contro la famiglia Calas e che convinse il patriarche de Ferney a pubblicare quella che ad oggi continua a rimanere la sua opera più importante: il Traitè sur la tolérance – il titolo per esteso dell’opera è Traitè sur la tolérance en occasion de la mort de jean calas -. Il 13 Ottobre del 1761 Marc-Antoine Calas, primogenito di Jean Calas, s’impiccò all’interno del negozio di famiglia a Tolosa. Il capitoul – una specie di pubblico ufficiale di quartiere -, dando ascolto alle testimonianze fanatiche e superstiziose dei vicini e considerando la natura protestante della famiglia Calas, chiese un supplemento d’indagine. Si ritenne che il padre, volendo impedire al figlio di convertirsi al cattolicesimo, avesse deciso di assassinarlo e di mascherare il reato e, quindi, la sua colpevolezza attraverso il montaggio di un mero suicidio. Marc-Antoine fu considerato martire e sepolto secondo rito cattolico. Il padre Jean fu ritenuto colpevole di omicidio (senza che la sentenza fosse motivata); fu dapprima torturato tramite la ruota, poi strangolato ed infine bruciato. Pierre Calas, fratello di Marc-Antoine, si recò a Ginevra da Voltaire. Convinse l’illuminista di Parigi dell’assoluta innocenza del padre. Il Traitè sur la tolérance del 1763 fu il mezzo letterario attraverso il quale Voltaire tentò di promuovere la revisione del processo. La famiglia Calas fu accolta a Versailles da Luigi XV ed il capitoul, colpevole di aver montato false accuse e testimonianze tendenziose ai danni di Jean Calas, fu destituito. Nel 1765 Voltaire e la famiglia Calas ottennero la revisione del processo che si concluse col riconoscimento dell’innocenza per il padre Jean. Il patriarche de Ferney assunse in questo modo, definitivamente, le vesti del philosophe engagé: nessun filosofo o scrittore francese, fino a quel momento, si era mai attivamente impegnato in un caso di natura giudiziaria. Ma l’attivismo volterriano non si sarebbe esaurito al solo caso della famiglia Calas.
Vi furono, infatti, molti altri casi giudiziari nei confronti dei quali Voltaire rivolse la propria passione ed attenzione. Tra i più famosi possiamo menzionare il caso della morte di Elisabeth Sirven; caso nel quale inizialmente venne accusato ingiustamente il padre – mentre si scoprì trattarsi poi di suicidio dettato da depressione -. Oppure il caso De La Barre, un giovane cavaliere accusato di aver rivolto offesa e blasfemia nei confronti del crocefisso e per questo condannato al rogo assieme ad una copia del Dictionnaire philosophique di Voltaire. Le stesse violente critiche rivolte dal patriarche de Ferney, durante tutta la sua vita, nei riguardi dell’Ordonnance Criminelle (1670) di Colbert – ministro della Giustizia di Luigi XIV – evidenziano tutt’oggi la grande ed appassionata partecipazione ai reali bisogni della res publica da parte dell’illuminista: osteggiando, difatti, la parificazione tra peccato e reato penale sancita da parte di suddetta ordinanza, Voltaire giunse a sostenere come servisse un nuovo codice penale che punisse l’eresia non in quanto tale (cioè come «deviazione religiosa» dall’ortodossia vigente), ma solo nel caso in cui essa apportasse dei danni tangibili e quantificabili alla società ed ai suoi membri – molte di queste riflessioni furono inserite nel Commentaire sur le livre des délits et des peines (1766) che il libertino rivolse all’opera del marchese Beccaria -.
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