DEMOCRAZIA DIRETTA E RESPONSABILITÀ CIVILE: UNA INCOMPATIBILITÀ DOVUTA.


Siamo un popolo che fatica moltissimo a comprendere il direttismo politico. Già lo avevo sostenuto all’indomani dello scorso referendum – quello sulle trivelle, quello del #ciaone – ed oggi, dopo mesi e mesi di diatribe e giustizialismi sia pubblici che virtuali, lo ribadisco nuovamente. Anzi, addirittura con maggiore convinzione e presa di coscienza. La questione che giustifica e legittima questa mia personale presa di posizione, dubbiosa e scettica, nei confronti degli organi di democrazia diretta, non verte solo e soltanto su di una logica tecnica secondo la quale sarebbe “opportuno” – e forse anche logico – non affidarsi alla vox populi per disquisire su tematiche istituzionali sulle quali dovrebbero esprimersi (soprattutto) gli esperti del settore. In parole povere: “Che senso ha interpellare la popolazione su argomenti complessi e delicati quando (in teoria) a livello di res publica vi è una classe politica che per lavoro dovrebbe esclusivamente occuparsi di siffatte mansioni?”. Resta questo un ragionamento corretto; ed il più delle volte sarebbe bastato comprenderlo per rendersi conto dell’assurdità di un’indizione referendaria, ma l’assenza di un rapporto vincolante tra elettore ed eletto non salvaguarda aprioristicamente il comportamento politico che il cittadino si attende dal proprio rappresentante politico – le nefandezze viste in riferimento alla legge Cirinnà, in seno alla mera approvazione di un ddl, ne sono un chiaro esempio -. Quindi, al contempo, una congettura del tipo “no, lasciamo che sia il popolo ad esprimersi perché senza un vincolo di mandato i politicanti potrebbero tranquillamente tradire il programma elettorale che ci avevano proposto” trova una sua logica di fondo. Ma che tristezza, ad ogni modo! Che tristezza l’aver la consapevolezza di legittimare attori e situazioni politiche mistificanti e deviate ed a causa delle quali si dovrebbe, di volta in volta, spendere centinaia di milioni di contributi pubblici per indire un referendum nei confronti del cui contenuto – ed è questo il vero nocciolo di tutta la questione – la totale ignoranza della massa regna sovrana – o almeno per un buon 35-40% della popolazione -.

Che valore o che giudizio qualitativo dovremmo mai attribuire all’opinione pubblica? Perché il problema risiede tutto qui. Si sostiene, giustamente, che la democrazia diretta strincto sensu sia quanto di più virtuoso vi possa essere in uno Stato di Diritto, dato che legittima la diretta partecipazione ed ingerenza della cittadinanza nelle questioni politiche concernenti la res publica. Ed è questa una verità incontestabile. Ma almeno prendiamoci il disturbo di valutare l’argomento politico, sociale o economico nei riguardi del quale si richiede il giudizio popolare, e prestiamo anche attenzione al livello culturale della popolazione medesima. Perché è altrettanto incontestabile il fatto che niente di peggio vi possa essere, per la genuinità delle infrastrutture democratiche di un Paese, che quello di permettere a persone indottrinate, viziate o non informate dei fatti di disquisire su questioni di interesse nazionale; questioni nei riguardi delle quali le istituzioni devolvono, per inadempienza o incapacità,  il raggiungimento di un particolare risultato politico ad un mero consenso popolare – lasciando cioè il tutto nelle mani della massa -. Con buona pace per la responsabilità civile di entrambi gli attori chiamati in causa: classe politica e cittadinanza. Rappresentanza e direttismo sono due principi tecnicamente differenti in politologia. Forse, probabilmente, non è ancora chiaro il concetto che, in una moderna democrazia, la res publica si rispecchia nel suo stesso corpo sociale, legittimandolo e venendone legittimata al contempo: fintanto che esso non sarà composto, per un buon 60-65% dei suoi componenti, da cittadini illuminati e dotati di capacità critica – una criticità che sia indipendente da appartenenze politiche et similia – pochissimi traguardi potranno mai essere raggiunti. Ma sto divagando troppo.

Ora il referendum del prossimo Dicembre verte direttamente sulla modifica sostanziale del nostro quadro istituzionale. Riguarda la Costituzione. E la Carta Costituzionale appartiene a tutti i cittadini. Quindi, anche in termini di purezza politica, benvenuta sia la partecipazione popolare a tale discussione. Peccato che ci siamo ritrovati nuovamente, per l’ennesima volta, a vivere questa occasione in un panorama di totale delirio, comunicativo e politico, tutto targato made in Italy. Un po’ come già accaduto in seno alla famosa Devolution, qualche anno fa. Focalizziamo, per un attimo, la nostra attenzione su ambo gli attori sociali chiamati all’azione da mesi nei riguardi di questo appuntamento storico. Partiamo dal versante istituzionale.

Come si può personalizzare politicamente un referendum? Comprendo benissimo tutti i discorsi che possono essere fatti in riferimento alla spettacolarizzazione della politica o al ridurre la profondità della politologia stessa ad una mera percezione mediatica, ma un’indizione referendaria, che verte sulla modifica della Carta Costituzionale, come può limitarsi ad una o meno appartenenza politica nei riguardi di una singola e specifica legislatura? Ma badate bene: questo “provincialismo politico” – dai connotati molto, ma molto italiani – non trova motivo di essere esclusivamente sul versante dell’Esecutivo. Come può un invito, rivolto dal piano istituzionale alla cittadinanza, per l’approvazione o meno di una modifica all’impianto costituzionale, limitarsi a divenire un mero voto di fiducia al Governo in pectore? Cosa dovrebbero mai rappresentarmi i renzexit? Si è chiamati per disquisire sul contenuto del ddl, svolgendo analisi comparative tra i pro ed i contro tenendo in mano la Costituzione, o è solo un’occasione per rimaner fedeli a ciò che viene espresso dal proprio schieramento politico di appartenenza, comportandosi poi di conseguenza? Se è un giudizio politico dai connotati elettorali quello che viene chiesto alla popolazione, perché indire il referendum? Certo, lo s’indice perché è la Costituzione stessa che lo impone, ma l’opportunità di elevare il dibattito, approfittando anche della partecipazione popolare, dove va a finire? Ovvio che se poi si è pure costretti a dover sorbire vaccate politiche – mi si passi il termine, per cortesia – del tipo «questa riforma aiuterà a combattere il terrorismo», allora tutto questo disquisire diviene davvero fine a sé stesso.

Quanti tra i cittadini indignati e/o giustizialisti, o quanti tra coloro che approvano e difendono questa riforma, hanno mai letto la nostra Costituzione? Quanti sanno cosa sia la navetta parlamentare? O cosa rappresenti un regolamento parlamentare? Si cita oggi l’art. 70, la Resistenza o – immancabilmente – l’eredità lasciateci dai nostri Padri costituenti, ma quanti sgranerebbero gli occhi dinanzi a nomi come LabriolaLa Pira – tanto per citarne due -? Quanti voteranno a favore o osteggeranno tale riforma solo per una logica di fedeltà al giudizio espresso dalla propria forza politica di riferimento? Eppure è un voto questo che dovrebbe essere svincolato in toto da ogni forma di mero proselitismo.

L’unica verità è che per l’ennesima volta le istituzioni hanno ridotto l’intera comunicazione ad una mera retorica elettorale, riducendo il tutto ad un banale voto di approvazione o di diniego nei confronti dell’attuale legislatura. In pochi, forse pochissimi, hanno tentato di divulgare giuste informazioni, diffondendo una chiara conoscenza dei contenuti della riforma, di modo da permettere così al cittadino di votare in piena autonomia e con profonda cognizione di causa. Nessuno ha voluto elevare la qualità del dibattito. In pochi ne sarebbero, del resto, stati in grado. Gli schieramenti si sono formati sulla base di memescreenshotslikes sparsi sul Web. Lo status quo ringrazia. Ancora una volta.

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