COMUNICAZIONE ED AZIONE SOCIALE.


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Analizziamo adesso il sesto parametro che costituisce, nel pensiero di Schütz, lo «stile cognitivo» della quotidianità. Esso investe tre piani d’indagine sociologica (e non solo): la comunicazione, l’agire sociale e l’intersoggettività – ovvero i rapporti interrelazionali -. Possiamo definire questa sesta ed ultima dinamica, costituente la vita quotidiana, con il termine di “socialità”. Cerchiamo di analizzarla con chiarezza. Premetto, fin da subito, che si tratterà di un’argomentazione particolarmente lunga, ma ho ritenuto impossibile scinderla in due tronconi di analisi.

La conoscenza lato sensu possiede per Schütz una “ovvia” ed “imprescindibile” derivazione sociale. Questo cosa significa, in breve? Beh, vuol dire che soltanto una piccola parte della conoscenza che abbiamo del Mondo può essere catalogata come “personale” – o “privata” o “nostra”, e via discorrendo -; tutto quanto il resto è legittimato e filtrato dal contesto sociale di riferimento e dalle interazioni che in esso si sviluppano tra gli individui. Se, dunque, la conoscenza della realtà sociale si giustifica sulla base dei contenuti dei contesti sociali medesimi e dei rapporti umani, allora – “semantica sociologica alla mano” – dobbiamo subito chiarire come il sociologo austriaco interpreti il concetto di “tipizzazione” – un concetto che, ad esempio, ho già avuto modo di trattare nell’esposizione della “dialettica sociale” di BergerLuckmann -. Per  Schütz la “tipizzazione” altro non è che la dinamica gnoseologica tramite la quale è possibile ridurre la molteplicità del reale ad un’unica e ben definita realtà di riferimento (intellegibile e conoscitiva). In breve – il concetto, difatti, è relativamente semplice da comprendere -, la “tipizzazione” permette al singolo individuo di estrapolare da suddetta molteplicità tutto quanto possa apparire come “utile” e “rilevante” al fine di perseguire un mero fine pratico: l’orientarsi nella realtà sociale di riferimento.

Questa presa di posizione porta il sociologo a riflettere su due concetti che diverranno due dei principali perni della sua sociologia fenomenologica: la “ovvietà” e la “preminenza”. La consapevolezza dell’esistenza di numerosi e distinti livelli di significato obbliga tutti noi a “rileggere l’ovvietà della vita quotidiana” e, al contempo, a riconsiderare il “peso” ed il contenuto di quella realtà che, ai nostri occhi, è apparsa essere sempre come la “preminente”. Cercando, nuovamente, di esemplificare il tutto, potremmo “cavarcela” con una perifrasi del tipo: “anche dietro al comportamento più ovvio e scontato si nasconde una molteplicità di significati che possono indurci a reinterpretare la realtà medesima”.

Una domanda che potremmo porci, una volta giunti a questo punto della trattazione, potrebbe essere la seguente: “Ma perché la realtà preminente deve per forza di cose essere quella della quotidianità?” – e non rispondete con un “ovvio che lo sia” perché l’ovvietà deve, per l’appunto, essere riletta -. Schütz individua quattro elementi a sostegno di tale preminenza della realtà quotidiana:

  • «perché vi partecipiamo sempre, anche durante i nostri sogni, attraverso i nostri corpi, che sono essi stessi cose del mondo esterno»;
  • «perché gli oggetti esterni limitano la nostra libera possibilità di azione opponendo una resistenza che può essere superata solo con fatica se pure lo può essere»;
  • «perché è questo il regno in cui possiamo inserirci con le nostre attività corporee e, quindi, che possiamo mutare e trasformare»;
  • «perché – e questo è solo un corollario dei precedenti – entro questo regno, e solo entro questo regno, possiamo comunicare con gli altri uomini e stabilire così un “comune ambiente comprensivo” nel senso di Husserl».

Sebbene preminente, la quotidianità resta pur sempre intrisa di distinti e numerosi piani di significato. Come viene trattata tale molteplicità nella comunicazione intersoggettiva? Come si struttura all’interno dei rapporti interrelazionali? Beh, intanto l’attenzione si sposta (direi quasi, ovviamente) sul piano inerente i processi di socializzazione:

Il mondo della vita quotidiana dovrà indicare il mondo intersoggettivo che esisteva da molto prima dalla nostra nascita, percepito e interpretato dagli Altri, i nostri predecessori, come un mondo organizzato. Ora esso è dato alla nostra esperienza e alla nostra interpretazione. Ogni interpretazione di tale mondo è basato su previe esperienze di esso, sulle nostre stesse esperienze e su quelle che abbiamo ereditato dai nostri genitori e insegnanti, le quali, nella “forma di conoscenza a disposizione”, funzionano come schema di riferimento.

Il mondo della quotidianità, dunque, non può essere considerato, aprioristicamente, alla stregua di una realtà (culturalmente) privata e personale, ma bensì dovrà essere interpretato come un “universo simbolico” – a noi antecedente -, i cui valori, una volta colti ed assimilati, possono permettere a ciascun individuo di orientarsi e muoversi all’interno di quel preciso contesto sociale di riferimento. Quindi, una delle feature caratterizzanti la realtà quotidiana è il suo presentarsi come per “data” e “scontata” – anche in questo caso, potremmo volgere l’attenzione, nuovamente, ai contributi di LuckmannBerger -.

Ora, il problema, che, secondo il sociologo, “assale” i rapporti intersoggettivi, trae la propria giustificazione dalla difficoltà – e dalla impossibilità, come vedremo – di poter generalmente estendere a tutti gli individui lo stesso “senso” e “significato” di una determinata “esperienza”. Sono queste tre parole chiave di tutta la fenomenologia di SchützSchütz sostiene che l’atteggiamento da noi assunto nei riguardi di una nostra esperienza passata dipenda inesorabilmente dal grado di “attenzione alla vita” che avevamo adottato in quel preciso istante temporale in cui l’avevamo vissuta. Una esperienza passata, se dovesse venire “riletta” e “reinterpretata” oggigiorno, potrebbe tranquillamente acquisire (anche) un significato del tutto diverso da quello da noi attribuitole all’epoca. Questo comporta una prima conseguenza sociologica di tipo prettamente individualistico: nei riguardi di quella particolare e definita esperienza passata, siamo impossibilitati de facto a condividere un senso che possa mostrarsi “comune”. Questo perché il nostro «sistema delle rilevanze» – come lo chiama Schütz – muta inevitabilmente col passare del tempo.

Il “dramma” epistemologico deriva però dal fatto che questa impasse non si esaurisca ipso facto nel piano della mera individualità. Tutt’altro. Sfocia su quello della sovraindividualità: “Come posso essere certo che ciò che definisco “reale” lo sia anche per gli altri miei «consociati» – nella terminologia di Schütz, i «consociati» sono coloro con cui condivido nello stesso istante una relazione socio-ambientale -?”. Inoltre: “Come possono questi «consociati» condividere, comprendere e/o interpretare il mio “senso” nei riguardi di una mia esperienza?”. Ed ancora: “Se già è impossibile, individualmente, riconoscere una definita unicità di senso, come posso io conciliarmi con il resto della quotidianità, dato che essa è perennemente condivisa con gli altri e non è né personale né, tanto meno, privata?”. Schütz espone due tesi per giungere ad una conclusione che possa soddisfare i suddetti quesiti:

  1. tesi generale dell’esistenza dell’alter ego“, stando alla quale ciascun individuo presuppone l’esistenza di altri suoi simili, dotati di coscienza, intelligenza e capacità volitiva;
  2. tesi della reciprocità delle prospettive“, con la quale si ipotizza – in una logica di reciproco “compromesso cognitivo” – che anche l’alter ego viva ed esperisca la quotidianità in un modo simile o, comunque, riconducibile al mio, cosicché il Mondo, che appare ai miei occhi come “dato” e “scontato”, si mostri in egual maniera anche a lui, di modo che tra di noi possa venire a crearsi una ragguardevole “corrispondenza empirica di significato/i”.

La “tesi della reciprocità delle prospettive” si fonda su due presupposti:

  • la idealizzazione dell’interscambiabilità dei punti di vista“: «do per scontato, e presumo che il mio compagno faccia la stessa cosa, che se io mi cambio di posto con lui così che il suo qui diventa “mio”, sarò alla sua stessa distanza dagli oggetti e li vedrò attribuendo ad essi la stessa tipicità che egli di fatto vi attribuisce [.. ..]»;
  • idealizzazione della congruenza del sistema di attribuzione di importanza“: «presumo che il mio compagno faccia lo stesso, che quelle differenze nelle prospettive le quali hanno origine nelle nostre situazioni individuali uniche siano irrilevanti nei confronti del comune fine da raggiungere e che io e lui, cioè “noi”, presupponiamo di aver entrambi scelto e interpretato i comuni oggetti effettivi e potenziali e le loro caratteristiche in modo identico, o almeno in modo “empiricamente” identico, vale a dire sufficiente per tutti i nostri fini pratici».

Dobbiamo però prestare attenzione: Schütz rimane ben consapevole di come il “senso” resti sempre soggettivo. Le due tesi permettono di avvicinarsi all’alter ego per avere una corrispondenza che legittimi l’intersoggettività. Ma i significati non potranno mai combaciare perfettamente: «La condivisione del senso è quindi una assunzione di “senso comune”: le idealizzazioni rendono compatibili il carattere radicalmente soggettivo del senso con l’esperienza dell’intersoggettività, della condivisione (dell’esperienza)».

La “socialità” di Schütz si fonda, dunque, su un rimando continuo tra “sociale” e “soggettività”: il carattere sociale preesiste l’individuo – come abbiamo visto in seno ai processi di socializzazione – e plasma nel tempo la soggettività che, di conseguenza, conferma continuamente la certezza e “scontatezza” – intesa proprio nel senso di “prevedibilità” – dell’oggettività sociale. Il piano sociologico e quello fenomenologico tendono, quindi, a combaciare: gli individui si rapportano alla realtà esterna sia tramite il “senso” (personale) che le attribuiscono sia in base all’influenza che la realtà stessa esercita su di loro grazie alla condivisione dei contenuti della intersoggettività.

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