Analizzare l’aspetto ontologico dell’etica significa comprendere i contenuti dei principi morali di cui la stessa si costituisce. Tale comprensione può ridursi ad una mera descrizione – “intuizionismo” – o alla formulazione di disquisizioni più o meno profonde. Vediamo di esporre qualche riflessione in riferimento alle ontologie più conosciute:
- “Soprannaturalismo”: si è soliti fare riferimento alla ben nota risposta formulata da Eutifrone alla domanda posta da Socrate “che cosa è giusto?”. Eutifrone sostiene che “giusto è ciò che è gradito agli Dei”. Si tratta di una risposta che, allo stesso tempo, è anche una non risposta. Da un lato, infatti, se una cosa è giusta perché è gradita agli dei, allora il problema ontologico della definizione del “giusto” è risolto – e, di conseguenza, la difficoltà gnoseologica di cogliere e definire quali siano i comportamenti virtuosi risulta essere “semplificata” -. Dall’altro lato, però, se ci domandassimo se quella cosa risulti essere gradita agli Dei in quanto giusta, dovremmo allora prima definire ontologicamente cosa sia il giusto – in termini apriorici, per l’appunto -; proprio perché la cosa è gradita perché giusta – e non è giusta perché gradita -. Il soprannaturalismo affonda le proprie radici nella prima constatazione. Tale ontologia sostiene che il principio morale si fondi su una fonte di giustificazione e di legittimazione esterna, inconfutabile e metafisica – la “semantica” può essere spesso di tipo religioso: basti pensare alla Rivelazione, intesa come “dinamica” legittimante il precetto in questione -. L’argomentazione verte, soprattutto, sui contributi filosofici di Platone. Platone teorizza l’esistenza di una realtà eidetica – il famoso “iperuranio” -, composta esclusivamente da idee; le idee sono essenze eterne ed immutabili. Sono distribuite secondo una precisa e ferrea scala gerarchica, sulla cui vetta primeggia l’idea del Bene Supremo. Tale realtà eidetica è separata da quella sensibile. Anzi è perfettamente sovrapponibile alla stessa, dato che il Mondo delle oggettualità sensibili è visto essere come una “copia” del Mondo delle idee. Quest’ultime sono conosciute dall’uomo, ma dimenticate nel momento esatto in cui lo stesso si costituisce sotto forma di corpo. Per comprendere le idee, dunque, è necessario rimembrarle. E per rimembrarle è necessario intuirle. L’intuizione, quindi, permette di cogliere l’essenza stessa di ogni cosa. Se intuisco l’idea del bene, posso poi comportarmi rettamente – e posso intuire l’idea del bene perché ne ho rimembranza -;
- “Naturalismo”: opposto al trascendentalismo platonico, troviamo l’immanentismo naturale di Aristotele. Anche Aristotele sostiene che le idee esistano e che siano reali. Ma non concepisce la possibilità che possano trovarsi in una realtà distinta e separata dal Mondo sensibile. La natura, infatti, si presenta agli occhi del filosofo come unita, indivisibile e costituita di materia. Nei riguardi di ciascuna essenza vige il “fine ultimo” della natura, che altro non è che la “potenza in divenire” di qualsivoglia oggettualità sensibile. La potenza in divenire dell’uomo, ad esempio, è il comportarsi secondo virtù. Il fine ultimo della natura per l’uomo, dunque, è fare in modo che lo stesso si comporti rettamente. Da qui la formula “comportarsi secondo natura”. Da qui l’imprescindibilità della riflessione antropologica in seno alla moralità. Aristotele sembra quasi ritenersi in grado di – filosoficamente parlando – “fotografare” l’oggettività della natura, escludendo poi dalla propria riflessione tutti quei comportamenti non propriamente degni di apprezzamento. La natura, infatti, si costituisce anche di molte attitudini alquanto “criticabili”. Ecco il perché della critica mossagli poi contro dal filosofo inglese John Stuart Mill, secondo cui, il “comportasi secondo natura” impone il porre prima in essere un “procedimento apriorico di selezione dei comportamenti”: risulta essere doveroso “inserire” nella natura ciò che riteniamo essere moralmente apprezzabile, prima di veicolare il nostro comportamento etico al rispetto dei principi in essa contenuta;
- “Edonismo”: l’edonismo epicureo sostiene come gli uomini si comportino in modo tale da alienare sé stessi da qualsivoglia forma di dolore, con l’interesse di percepire il piacere. Si tratta di una concezione dell’edonismo cosiddetta “psichica”. Vi è anche una formulazione “etica”, secondo la quale l’uomo vive esclusivamente per perseguire il proprio piacere personale. Quest’ultima è fortemente dubbia – oltre che facilmente criticabile, per mezzo anche di una mera osservazione empirica dei comportamenti umani -;
- “Egoismo”: se l’edonismo sprona l’uomo a perseguire il piacere, l’egoismo, dal canto suo, incita l’uomo a raggiungere i propri interessi – egoistici, per l’appunto -. Possono essere intenti anche non meramente edonistici – come la ricerca di una maggiore ricchezza, ad esempio -. Anche in seno all’egoismo possiamo evidenziare una valenza psichica da un’altra più prettamente etica; ed anche in questo caso sostenere che l’uomo viva esclusivamente per perseguire i propri fini privati è alquanto discutibile – oltre che “moralmente poco auspicabile”: pensare ad una convivenza pacifica tra individui spronati solo da interessi egoistici è oltremodo assurdo… a patto che non si teorizzi una specie di “mano invisibile” capace di indirizzare tale molteplicità di fini individualistici verso il perseguimento di un interesse generale e/o universale -;
- “Riduzionismo”: si tratta di un’analisi che permette di “ridurre” il principio morale nei minimi comuni denominatori di una fonte di giustificazione che, all’interno del campo d’interesse nel quale è situata, viene ritenuta essere apodittica ed inconfutabile. Facciamo un esempio:
pregare è giusto → l’atto di pregare è voluto da Dio → pregare è giusto perché è voluto da Dio
(dove “Dio”, come parametro cognitivo e concettuale, è apodittico nel campo di interesse nel quale risiede)
- “Non naturalismo”: il filosofo inglese Moore, utilizzando un linguaggio (a tratti) platonico, afferma come i principi morali siano, per lo più, atti mentali che devono essere colti e valutati solo sulla base del significato che esprimono – la cosiddetta “referenzialità del significato” -. Sono concetti esistenti, ma solo nella mente, in quanto non sono riducibili e/o riconducibili a proposizioni in grado di descriverne con accuratezza (scientifica) il contenuto. Parla, a tal riguardo, di “fallacia naturalistica”;
- “Intuizionismo”: secondo gli intuizionisti, il discorso morale è un semplice discorso descrittivo, “riducibile” ad una classificazione del tipo “vero o falso”. Ne viene, quindi, criticata l’incapacità di descrizione e di analisi del contenuto morale stesso, nonché la totale assenza di una lettura teleologica del medesimo. Per fare un banale esempio: gli intuizionisti possono intuire cosa sia giusto ma, primo, non si mostrano essere in grado di esplicitare tale concetto e, secondo, non riescono a prevedere le conseguenze (negative o positive) di quanto intuito – ovvero se quel comportamento produrrà esiti virtuosi o nefasti -.
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