Secondo Platone, il Bello si manifesta ontologicamente sotto forma di eidos, ovvero di forma ideale verso la quale è possibile accedere soltanto all’interno dell’Iperuranio. Al pari di tutte le altre particolarità eidetiche, delle quali l’anima dell’uomo godeva di pieno accesso e di assoluta comprensione quando si trovava al fianco degli Dei nel Mondo noetico – cfr. Timeo -, anche l’idea del Bello è causa efficiente di tutti i sensibili che dalla stessa seguono. La bellezza sensibile, quindi, percepibile tramite gli organi sensoriali, è illusoria, in quanto imitazione e copia dell’idea del Bello (in sé e per sé). Se la bellezza che percepiamo all’interno della realtà sensibile è solo un “qualcosa” che partecipa alla corrispondente forma ideale, è attraverso il medesimo atto del percepire che abbiamo modo di “rammentare” ciò di cui la nostra anima aveva agnizione nell’altro Mondo. In tutto ciò consiste la tematica filosofica della “reminiscenza”, nonché la consapevolezza di come il passaggio dal Mondo eidetico a quello sensibile debba essere letto in ambedue le direzioni.
Da una parte, infatti, in tema di legittimazione e di giustificazione ontologica, è indubbio come il Mondo delle idee sia causa efficiente di quello dei sensibili. Dall’altra parte, però, da un punto di vista squisitamente gnoseologico, è attraverso la percezione degli stessi che la nostra attenzione viene veicolata, per la ricerca di una vera conoscenza, verso il piano metafisico e trascendentale.
Ma in cosa consiste il Bello per Platone?
Il Bello è una forma ideale. Correlata, fortemente, all’idea del Vero e del Bene. Questo ci permette di comprendere come la bellezza non sia solo mera armonia e/o perfetta proporzione tra le parti ed il tutto, ma anche conoscenza piena ed assoluta – il Vero – ed incontestabile virtù – il Bene -. Del resto, all’interno della tradizione greca, bello è tanto l’ordine che va formando il Cosmo e la Natura quanto, ad esempio, il cittadino onesto e virtuoso e/o la polis che rispecchia, nella sua organizzazione, l’armonioso equilibrio che regola la realtà di tutte le cose.
Platone considera il Bello come eros, ovvero l’Amore per il bel corpo e per la bellezza fisica. Eros è un Amore insaziabile, irrefrenabile ed inarrestabile. Trae piacere non solo dalla contemplazione di un bel corpo ma, altresì, da forme di appagamento (anche) di tipo sessuale. Trattasi però di una fame che non riesce mai a sentirsi sazia. Un desiderio che pare essere profondamente inappagabile – cfr. la vita estetica secondo Kierkegaard –. Questo perché, sostiene Platone, fintanto che la ricerca della bellezza rimarrà ancorata alla realtà sensibile, mai essa stessa potrà sentirsi pienamente soddisfatta. Ecco perché è fondamentale alienarsi dai sensibili e volgere lo sguardo alla forma ideale di bellezza. Non è un caso se, all’interno del Cratilo, Platone faccia spesso ricorso al verbo kalein per trattare l’idea del Bello: tale verbo, infatti, possiede molti significati, alcuni dei quali particolarmente indicativi a tal riguardo. Come quello di “destare” e “richiamare a”, ecc.
Ad ogni modo, abbiamo visto come la percezione sensibile, nonostante non sia in grado di produrre una vera forma di conoscenza, sia importante al fine di ridestare l’anima e rivolgerla verso ciò di cui la stessa aveva piena agnizione all’interno del Mondo noetico. Quindi, in cosa consiste la bellezza sensibile per Platone?
Essa è proporzione. Pura, armoniosa, ordinata ed assoluta proporzione tra le parti costituenti il tutto e quest’ultimo. E il bello artistico, invece?
Il rapporto tra Platone e l’arte è alquanto complesso e non privo di “superficiali contraddizioni”. L’arte è sia di tipo musivo che tecnico. Una prima forma di artista è rappresentata dalla figura del musico, ovvero da colui che, in preda all’euforia e “succube” di una vera e propria ispirazione divina, diffonde la sua irrefrenabile passione al fine di esperire un preciso intento: rendere partecipi di tale bramosia i fruitori. Il musico, del resto, è un medium tra gli Dei e gli uomini. È colui che parla in modo poetico ed accompagna i suoi versi con la danza ed il suono della cetra o della lira – le arti musive, infatti, sono proprio la poesia, la danza e la musica -. Resta, comunque, una evidente idiosincrasia concettuale, all’interno del pensiero platonico. L’arte, infatti, è una rappresentazione e la realtà sensibile, per l’appunto, non è fonte di vera conoscenza proprio perché costituita da credenze e rappresentazioni. Le arti più prettamente tecniche – come la pittura o la scultura, ad esempio – sono imitazioni dei sensibili, ovvero “imitazioni di imitazioni”. Il che significa che sono doppiamente mistificanti nei riguardi di una conoscenza pura ed ideale. Il problema, ad ogni modo, persiste anche per le arti musive. Ad esempio, nonostante nelle pagine della Repubblica venga valorizzata la musica – arte capace di nutrire la virtù dell’anima irascibile dei guerrieri: il coraggio -, Platone non si esime dal criticare ferocemente l’epica omerica – a detta del filosofo, fin troppo menzognera, in quanto palesemente illusoria e fantasiosa -.
Un chiarimento ci viene fornito proprio dallo stesso filosofo, attraverso la distinzione tra “arti fantastiche” ed “arti icastiche”. Le prime tendono a (ri)proporre un effetto naturalistico, attraverso dei correttivi – anche per quanto concerne la simmetria e la proporzione – di quanto effettivamente scorto. L’arroganza dell’artista, sostiene Platone, si manifesta proprio nel desiderio dello stesso di fare in modo che quanto realizzato non sia una imitazione ma, bensì, la vera cosa in sé e per sé. Le arti icastiche, invece, riportando le reali proporzioni degli oggetti così come sono visti, spronano il fruitore ad andare oltre al mero sensibile e a scorgere l’essenza intelligibile della proporzione e della simmetria, cui il contenuto dell’opera partecipa e che, per l’appunto, imita.
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