NATURA E RITORNO IN SCHOPENHAUER.


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Mai parole possono dirsi più chiare, qualora volessimo comprendere la concezione di Schopenhauer del Mondo della Natura:

Quel che essa dice è: la morte o la vita dell’individuo non hanno nessuna importanza. Questo essa esprime cioè con l’abbandonare la vita di ogni animale, e anche dell’uomo, agli incidenti più insignificanti, senza intervenire in loro aiuto. […] Tutti questi esseri si aggirano ignari, armati di poca prudenza, tra i pericoli che in ogni momento minacciano la loro esistenza. In quanto dunque la natura abbandona senza riserve i suoi organismi così indescrivibilmente ricchi non solo alla rapacità del più forte, ma anche al caso più cieco e al capriccio di ogni matto e alla protervia di ogni fanciullo, dichiara anche che la distruzione di questi individui è per essa indifferente, non la danneggia e non le significa nulla, e che, in questi casi, l’effetto ha altrettanto poca importanza della causa.

Come è ben facile intuire si tratta di una riflessione profondamente – oserei dire – leopardiana. Ma potremmo commettere un grave errore nel sostenere che la sopracitata “indifferenza”, che la Natura nutre nei riguardi di ciascun essere vivente, sia inevitabilmente – ed esclusivamente – da intendersi alla stregua di un mero esistenzialismo. Il filosofo, difatti, sostiene che:

Ma se la gran madre comune manda così incurantemente i suoi figli incontro a mille minacciosi pericoli senza custodia, ciò può essere solo perché sa che, se essi cadono, ricadono nel suo grembo, dove sono al sicuro, e quindi che la loro caduta è solo uno scherzo. Né si comporta con l’uomo diversamente che con gli animali. La sua sentenza si estende dunque anche a quello: vita o morte dell’individuo sono per essa indifferenti. Per conseguenza esse dovrebbero esserlo, in certo senso, anche per noi: anche noi siamo infatti la natura. Certamente noi, se potessimo vedere le cose abbastanza in profondità, consentiremmo con la natura e guarderemmo alla vita e alla morte con altrettanta indifferenza di essa. Comunque dobbiamo, mediante la riflessione, interpretare questa noncuranza e indifferenza della natura per la vita degli individui nel senso che la distruzione di un tale fenomeno non tocca minimamente la vera e propria essenza del medesimo.

La conclusione cui giunge Schopenhauer è quella che, almeno in parte, abbiamo giù avuto modo di constatare nei precedenti articoli: la vita e la morte restano fenomeni “superficiali”, nel senso che nelle vesti di accadimenti naturali essi non scalfiscono assolutamente la vera essenza della Natura medesima, cioè la materia indistruttibile e le forze di cui la stessa va costituendosi. Dobbiamo vertere la nostra attenzione su una specie di dualismo dicotomico: da una parte, abbiamo gli esseri particolari, soggetti continuamente a processi di creazione e distruzione (e, quindi, di sostituzione), i quali, però, non sono che una “manifestazione relativa del linguaggio della Natura”, dall’altra parte, invece, troviamo la Natura in senso proprio, ovvero la Vita strincto sensu, ovvero tutto ciò che in termini di essenza determina il fulcro dell’esistenza – materia e forze naturali –.

Si tratta, dunque, di un «circolo» che è da intendersi come il «vero simbolo della natura». È un vero e proprio «schema del ritorno»:

quest’ultimo è infatti la forma più generale della natura, che essa applica a tutto, a cominciare dal corso degli astri fino alla nascita e alla morte degli esseri organici, e per cui soltanto nell’incessante fluire del tempo e del suo contenuto è tuttavia possibile un’esistenza stabile, cioè una natura.

Dobbiamo approfondire ulteriormente la questione perché, giunti a questo punto, il concetto di “tempo” comincia ad acquisire un significato fondamentale nel pensiero di Schopenhauer ed in seno ad alcune tematiche importanti come quella di “immortalità”, “specie” ed “esistenza”. Il filosofo, infatti, sostiene come la Volontà di vivere sia da intendersi come «un presente senza fine, perché questa è la forma di vita della specie, che dunque non invecchia, ma rimane sempre giovane». Certamente, riflettendo in seno ai processi naturali di creazione e distruzione degli organismi viventi, siamo portati a dotarci di una concezione lineare del tempo. Ma, nuovamente, Schopenhauer evidenzia come suddetto punto di vista sia viziato, in quanto meramente superficiale. Se, per l’appunto, volgessimo la nostra attenzione alla vera essenza della Vita, noteremmo come essa sia “sempre e solo ora” perché tale e la vera forma dell’esistenza:

[…] nonostante millenni di morte e di putrefazione, ancora nulla è andato perduto, non un atomo di materia e ancor meno qualcosa di quell’intima essenza che si presenta come natura. Pertanto noi possiamo in ogni momento esclamare di buon animo: «Nonostante il tempo, la morte e la putrefazione, siamo ancora tutti quanti insieme!»

Il tempo, dunque, è una bieca e profonda illusione. Esso, del resto, è un artifizio dell’intelletto e serve esclusivamente a nutrire una deviata necessità individuale. L’essenza, ampiamente intesa e colta nella profondità della sua stessa ontologia, è sempre un “ora”, un “qui” ed un “presente”: l’impossibilità, che riscontriamo nel cogliere tale profondità, è da ascrivere al tempo che, per l’appunto, è un limite del nostro intelletto. Ancora una volta, le parole di Schopenhauer sono dannatamente esaustive:

Si deve giungere a comprendere che il passato non è diverso dal presente in sé, ma solo nella nostra apprensione; questa ha per forma il tempo, in virtù del quale soltanto il presente appare diverso dal passato. Per agevolare questa comprensione si immaginino tutti i fatti e le scene della vita umana, cattivi e buoni, felici e infelici, lieti e terribili, quali ci si presentano successivamente nella più variopinta molteplicità e alternanza nel corso dei tempi e nella diversità dei luoghi, come esistenti tutti in una volta, contemporaneamente e perpetuamente, nel Nunc stans, mentre solo in apparenza ora è questo e ora quello – allora si capirà che cosa voglia propriamente dire l’oggettivazione della volontà di vivere. […] A un occhio che vivesse incomparabilmente più a lungo, e che abbracciasse con un solo sguardo il genere umano in tutta la sua durata, il continuo alternarsi di nascita e morte si presenterebbe solo come una perpetua vibrazione, e quindi non gli verrebbe affatto in mente di vederci un sempre nuovo divenire dal nulla che ritorna nel nulla […].

Una conclusione cui possiamo giungere a seguito di un tale disquisire è che tutti quanti noi, in quanto esseri viventi, in riferimento alla vera essenza della Vita, siamo «la stessa cosa degli animali», costituendo con gli stessi e con qualsivoglia altro essere organico un Tutto. Un tutto che è perennemente sottoposto agli eterni ed immortali processi che regolano il fondamento ontologico della Natura.

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