Un interrogativo che sorge, quando si riflette attorno ad alcuni temi – inevitabilmente – cari ed inerenti alla pratica buddista, concerne la (necessaria?) conduzione di una esistenza semplice, umile e dedita alla rinuncia. Può apparire abbastanza “scontato” e/o “immediato” sostenere come, in quanto buddisti, sia fondamentale vivere una vita priva di ricchezze e di beni terreni… “oggetti” tali da generare nel loro proprio possessore sentimenti di cieco attaccamento, cupidigia, bramosia et similia. Ma, per l’appunto, se riducessimo il tutto ad un mero precetto – oserei dire “teologico” -, correremmo il rischio di non cogliere la profonda essenza di quanto diamo – lo ripeto – per “scontato”.
Il possesso di per sé, nel suo significato più ampio ed universale, proprio perché può veicolare ciascuno di noi all’accaparramento violento, mistificante e senza scrupolo di beni e ricchezze, è un qualcosa che può sicuramente condurci lontano dalla Via dell’Illuminazione. L’attaccamento, infatti, produce soddisfacimenti profondamente labili ed illusori. Uno dei quattro grandi insegnamenti del sangaha dhamma è il “donare”, ovvero il “mostrarsi altruisti con il proprio prossimo”. Ricordiamoci che il Buddhismo non impone forzatamente, quasi fosse un vero e proprio monito divino, il condurre una esistenza misera e povera: il percorso di crescita e di elevazione spirituale che la stessa dottrina comporta, più che altro, è da intendersi come un meraviglioso “invito” a comprendere come per la vera conoscenza e la genuina felicità il “bene terreno” sia del tutto superfluo. Ma il concetto di “possesso”, esattamente come quello di “attaccamento” e/o di “desiderio”, non è di semplice formulazione. Resta una dinamica ed una realtà dannatamente complessa. Facciamo un ragionamento inverso.
Siamo portati a formulare quanto sostenuto sopra generalmente nei riguardi di un soggetto ricco o, ad ogni modo, benestante. Ma nei riguardi del povero, cosa diremmo mai? Giriamo, nuovamente, il punto di vista: “Cosa mai desidera una persona povera? La ricchezza?”. Per capire come la fugacità e la mistificante illusione del possesso e del “bene posseduto” siano in grado di investire l’individuo lato sensu, ovvero colto in sé e per sé, indipendentemente cioè dalle proprie condizioni sociali ed economiche, è di fondamentale importanza comprendere come l’alienazione dal “possesso” e dal “desiderio del possesso” si palesi tanto difficile sia per il ricco che per il povero.
Per il primo, il percorso verterà nel comprendere come fugace sia, ai fini della mera esistenza del suo “essere – qui ed ora – al Mondo”, il possedere ciò che possiede; per il secondo, invece, come l’aspirazione della sua stessa esistenza non debba trovare nutrimento nel riuscire a possedere ciò che gli altri possiedono.
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