Sviluppiamo la nostra argomentazione, concernente il pensiero di San Tommaso, partendo dalla ferocia critica rivolta dal domenicano ai peripatetici, in seno al tema dell’intelletto dell’uomo.
Averroè sostiene che l’intelletto “possibile” – o “potenziale” o “passivo” o “materiale” – sia unico e separato dal corpo e che, quindi, lo stesso non vada unendosi a quest’ultimo come sua forma. Secondo Tommaso, invece, il filosofo arabo ha mal compreso i principi che sono stati espressi a tal riguardo da parte del fondatore della tradizione peripatetica: Aristotele. D’Aquino, quindi, evidenzia come alla base di tutto vi sia un’errata interpretazione del sistema filosofico aristotelico. La volontà di Tommaso è, dunque, quella di mostrare come erronea l’argomentazione averroista, affidandosi non soltanto a riflessioni prettamente religiose o spirituali – sottratto agli uomini l’intelletto (unica parte dell’anima ad essere immortale ed incorruttibile), niente resta dell’anima umana dopo la morte – ma, bensì, sfruttando disquisizioni di natura più squisitamente filosofica.
Aristotele è convinto che l’anima sia la “essenza” di un determinato corpo, ovvero del corpo fisico organico essa è la “forma sostanziale”. In quanto “motore” del corpo, l’anima è “atto del corpo”, ovvero tutto ciò che il corpo compie altro non è che espressione e manifestazione dell’anima, ovvero espressione e manifestazione di ciò che l’anima è per sua stessa essenza. Il corpo è in “potenza”, quindi, rispetto all’anima in quanto ha necessità di quest’ultima per muoversi, interagire e via discorrendo. Ecco perché l’anima è forma del corpo. È necessario comprendere, sostiene Tommaso, se l’anima sia “atto del corpo” perché tutte le parti dell’anima sono “atto del corpo” oppure se lo sono soltanto alcune.
Secondo Aristotele, se si separa l’anima dal corpo non si ha il vivente “in atto”, dato che l’anima è forma e motore del corpo. Platone, invece, sostiene che l’anima sia il motore del corpo e che faccia tendere lo stesso verso il mondo noetico. Afferma però anche che l’anima non si unisce al corpo come forma. Aristotele, al contrario, rifiutando l’idea delle diverse anime teorizzate da Platone – cfr. Repubblica -, afferma che tutte le attività che rendono vivo il vivente – dal muoversi al pensare, ad esempio – altro non siano che potenze da ascrivere ad una sola anima che è “atto del corpo” e che possiede al suo interno una precisa gerarchia tra le stesse – vegetativa, sensitiva, intellettiva, motoria ed appetitiva -. Il dubbio risiede nel dover capire se l’intelletto sia l’anima o una parte dell’anima e, in questo ultimo caso, se sia separato secondo il luogo o il concetto.
L’intelletto è un “diverso tipo di anima”, nel senso che della stessa è l’unica parte ad essere perpetua. In quanto perpetuo, l’intelletto è incorrutibile, ovvero non partecipa alla corrozione del corpo – cfr. Alberto Magno -. Non si tratta però di sostenere che l’intelletto sia separabile dal corpo – in questo risiede la prima errata interpretazione di Averroè – quanto, piuttosto, di affermare come esso sia separabile dalle altre parti dell’anima – che resta, dunque, una -. Si parla, quindi, di “separabilità delle potenze dell’anima” e non di “separabailità dell’anima dal corpo”. Le parti dell’anima, dunque, non sono separabili secondo il luogo – tutte fanno parte di un’unica anima -. Sono diverse secondo il concetto. L’anima, quindi, in tutte le sue parti, si unisce al corpo come forma. L’intelletto è “potenza dell’anima” che è “atto del corpo”.
Segue poi la riflessione circa l’intelletto ed il senso. Cosa distingue questi due principi?
Tommaso, anche in questo caso, si affida al pensiero aristotelico: come il senso è “in potenza ai sensibili”, così l’intelletto è “in potenza agli intellegibili”. Vi è una differenza, però! Il senso può “patire” e venire distrutto dai sensibili “più potenti”, mentre l’intelletto non si corrompe mai in presenza degli intellegibili superiori. Motivo per cui, l’intelletto deve essere diverso, ovvero deve essere “impassibile”.
Inoltre, mentre il senso non può conoscere tutte le cose – la vista conosce soltanto i colori proprio come l’udito solo i suoni, ad esempio -, l’intelletto ha una potenzialità infinita, ovvero è in grado di conoscere ogni tipologia di concetto. Aristotele, infatti, prende le distanze da Empedocle secondo il quale, affinché l’anima possa conoscere una particolarità, deve essere della medesima natura della stessa – “identicità di forma tra conoscente e conosciuto” -. Aristotele, invece, sostiene che l’intelletto non sia “in atto di tutte le cose” ma “in potenza di tutte le cose” e che soltanto quando pensa l’intellegibile allora lo pensa “in atto” – esattamente come fa il senso con il sensibile… in questo (e solo in questo) consiste l’analogia tra i due principi -. L’intelletto, quindi, deve essere “non misto”.
Essere “non misto” significa “essere non mescolato” al corpo. Il senso, infatti, dipende dall’organo sensoriale corporeo, il cui mutare muta le potenzialità del senso ad esso preposto. Ciò non avviene con l’intelletto, in quanto esso non possiede un organo come il senso – anche un corpo menomato o privo di capacità sensoriale mantiene, come potenza della propria anima, l’intelletto -. Motivo per cui l’anima non è il luogo della specie degli intellegibili… lo è soltanto l’intelletto, dato che le altre parti dell’anima non sono in potenza agli intellegibili – solo la parte intellettiva lo è! –.
L’intelletto, quindi, è la parte dell’anima “separata dal corpo”, ovvero non mista ad essa, perché non possiede un organo. Ma questo non pregiudica in alcun modo che, in quanto potenza dell’anima, esso sia forma del corpo – per Aristotele, come come per Tommaso, è la “forma del corpo”-. L’intelletto è separato proprio perché non è una facoltà del corpo ma una potenza dell’anima che è “atto del corpo”. Qui risiede la seconda interpretazione errata di Averroè: è sempre e solo l’anima ad essere “atto del corpo” e non per mediazione delle sue potenze… essa è atto del corpo per sua stessa natura! Alcune sue potenze sono poi “atto di alcune parti del corpo”. rendendo cioè lo stesso idoneo a compiere determinate azioni, ma questo non vale per l’intelletto, che resta una potenza dell’anima a cui non è possibile ascrivere alcun organo corporeo.
Come sostenere, però, che un qualcosa di incorruttibile (l’anima) possa essere forma di una particolarità corruttibile (il corpo)? Se l’intelletto è “potenza” dell’anima che è “atto” del corpo, corrompendosi il corpo, anche ciò che ne dà forma, non potendo essere pensato se non unito al corpo stesso, deve condividere la medesima sorte. La questione è alquanto delicata ed è oggetto di attenzione anche da parte di Alberto Magno – cfr. De XV problematibus -. Tommaso, però, è convinto di come, anche in questo caso, si tratti di una errata interpretazione del pensiero aristotelico.
Aristotele, infatti, crede non tanto che la forma pre-esista alla materia ma, piuttosto, che essa possa essere in grado di esistere dopo la corrozione della medesima. Questo vale per l’anima e, per la precisione, per la parte intellettiva della stessa. L’immortalità è, quindi, da ascrivere al solo intelletto poiché esso è l’unico ad essere separato e perpetuo – a differenza delle altre potenze dell’anima -. Tommaso, proprio per enfatizzare ancora di più la distanza dalla posizione averroista, afferma che l’intelletto di cui sta parlando lo stagirita non sia quello agente o potenziale ma, bensì, l’intelletto in sé e per sé, unico e separato – a seguito dei motivi che abbiamo già evidenziato -.
In sintesi: l’intelletto è “separato” perché non è “atto” di alcun organo e “non separato” perché “potenza perpetua” dell’anima che è “atto” del corpo.
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