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Per descrivere con accuratezza tutti i punti di cui si costituiva il “manifesto deista” di Herbert, dobbiamo procedere attraverso un’analisi induttiva, nella quale tutti i vari concetti filosofici sono profondamente concatenati gli uni verso gli altri, di modo da poter così partire dalla definizione di Dio per giungere, in seguito, a quella di progresso sociale. E, difatti, già questa premessa iniziale è di assoluta importanza: i deisti, in quanto libertini, avevano sicuramente a cuore la rilettura della teologia su di un piano che fosse (anche) meramente concettuale, ma, in quanto “portatori” di quella filosofia militante che non doveva mai esaurirsi solo in un astratto appagamento personale, la religione doveva poi de facto promuovere un radicale cambiamento nell’assetto socio-politico della Nazione, divenendo portatrice di valori alternativi che promuovessero una vera e propria rivoluzione tangibile e visibile sul piano sia normativo-istituzionale che giuridico. Cerchiamo, dunque, di procedere con ordine – la materia da trattare è vasta e particolarmente complessa -. Partiamo, intanto, dalla definizione del Dio deista.
Il Dio deista è un Dio misericordioso, compassionevole e virtuoso ma distaccato e disinteressato in toto circa le questioni umane. I deisti se, da un lato, osteggiarono gli scettici, dall’altro lato, ripudiarono ogni forma di agnizione del Divino legittimata da posizioni panteistiche – da qui la distanza tra il libertinismo inglese, di stampo deista, ed i neoplatonici di Cambridge, ad esempio -; il Dio deista non è né un Deus ex machina, che col proprio onnipotente intervento può porre fine ad ogni ingiustizia e/o svolgere arbitrarie ingerenze nella vita degli uomini, né un “Dio in tutto”, perché distante e totalmente disinteressato dalle questioni terrene. Il Dio deista è un architetto, un sommo regolatore del corretto funzionamento del Mondo – un “Dio orologiaio” secondo Voltaire -: a tale Essere Supremo preme solo che le leggi naturali, che regolano l’Universo, siano perfettamente poste in essere, proprio – ed esclusivamente – per garantire l’equilibrato ed equo svolgimento della vita lato sensu. Si tratta, dunque, di una fisionomia di Dio totalmente nuova, che implica una giustificazione di fondo profondamente rivoluzionaria: Dio è “ricostruito” nella sua stessa fisionomia ontologica dalla capacità critica e di elaborazione della mente umana. Un Deus ex ratione. Perché sostengo questo? Perché le confutazioni deiste si fondavano su di una premessa molto particolare: l’esegesi biblica. Ed è questo il concetto che adesso affronteremo.
L’esegesi biblica si contrappone all’interpretazione ad litteram ed ermeneutica degli antichi testi e delle Sacre Scritture. Per giustificare una rilettura alternativa della Bibbia – o del Corano o del Deuteronomio, ad esempio – si rendeva necessario che i deisti fossero storici, filologi ed individui profondamente acculturati. Era, infatti, fondamentale risalire agli antichi miti ed alle epoche remote per poter cogliere tutti quei valori secolarizzati e dogmatici su cui la religione rivelata continuava a fondarsi ed a giustificarsi in epoca moderna. La reinterpretazione della figura stessa di Gesù Cristo – calato nelle vesti di illustri personaggi come Sofocle, Socrate et similia – ad opera del patriarche de Ferney ne è, ad esempio, una chiara prova – ma, di questo, avrò modo di parlarne in un’altra occasione -. La rilettura degli antichi testi doveva essere finalizzata sia al riconoscimento dei precetti legittimanti il fanatismo dogmatico sia alla critica di tutti quei tabù secolarizzati che continuavano a promuovere intolleranza religiosa ed ingiustizia sociale all’interno delle varie Nazioni. L’esegesi permise, dunque, ai deisti di legittimare l’interpretazione del loro nuovo Dio: sconfessando il dogmatismo sia sul piano concettuale che storico, una fisionomia alternativa del Divino poteva essere elaborata e diffusa. E non più nelle vesti di una mera eterodossia. Ma l’esegesi rivolta alla teologia celava anche un secondo fine. Un obbiettivo molto più pragmatico e dai risvolti più marcatamente socio-politici e giuridici – tanto per ribadire, ancora una volta, il significato di “filosofia militante” -: l’anticlericalismo.
L’anticlericalismo fu una questione sia inglese che francese. Ma l’avversione al clergè fu un marchio distintivo soprattutto per il libertinage di Francia. Ad ogni modo, la “guerra culturale e gnoseologica” rivolta alle classi sacerdotali ci permette di comprendere ed evidenziare la componente più prettamente pragmatica del deismo medesimo. Difatti, se, su di un piano più spiccatamente filosofico e concettuale, il deismo altro non fu se non un appello rivolto alla fede lato sensu, (una fede costituita dai più virtuosi precetti cristiani, “rivisti” e riproposti per mezzo dell’esegesi biblica – analizzeremo a breve quella che viene comunemente definita, in ambito accademico, “morale naturale” -), ad una lettura, invece, più “tecnica” della realtà, il deismo assumeva le vesti di un enorme “compromesso socio-politico”. La fisionomia del Dio deista, o, per la precisione, quella particolare fisionomia del nuovo Dio, fondata e giustificata sull’esegesi biblica, serviva (anche) per porre in essere due tematiche particolarmente care ai vari Blount, Gildon, Locke, Voltaire et similia, ovvero l’umanitarismo e l’individualismo. Il libertinismo, in quanto “custode” di quella tanto apprezzata «filosofia della liberazione» – la citazione è per rendere merito anche alle riflessioni di Labriola -, focalizzava tutta la propria attenzione su di un preciso traguardo: la liberazione (per l’appunto) di ogni singolo individuo dalle catene dell’oscurantismo dogmatico delle verità rivelate e secolarizzate, di modo che l’uomo potesse elevarsi a moderno cittadino, così da riconquistare quel ruolo centrale di unico e vero attore della realtà sociale. Ora questo implicava, difatti, un “doppio lavoro”. Sconfessare l’ortodossia vigente, di modo da “sostituirla” con una nuova che si facesse carico di divulgare tutti quei precetti finalizzati alla misericordia e alla compassione, così da eliminare ogni prova reale del fanatismo e dell’intolleranza religiosa, fu la prima delle due mansioni da conseguire. La seconda era consequenziale alla prima. Perché se, da un punto di vista prettamente concettuale, il dogmatismo veniva spazzato via dalla diffusione della pratica deista, per fare in modo che esso non fosse più legittimato né giuridicamente né politicamente né, quindi, a livello istituzionale all’interno di un Paese, era necessario abolire quelle precise infrastrutture che avevano giustificato per secoli la secolarizzazione medesima. Ecco spiegato il perché della lotta alle classi sacerdotali. È questa fu una caratteristica che accomunò tutto il libertinismo, indipendentemente che i suoi proseliti fossero o meno dei deisti strincto sensu. Ma sulla base di quale formulazione concettuale poteva trovare una propria logica il giustificare l’abbattimento di suddette avanguardie secolari? Attraverso la pratica dell’individualismo, per l’appunto. Il rapporto tra Dio e l’uomo non doveva più necessitare di alcuna forma di mediazione – inutile dire che i contributi di Erasmo, a tal riguardo, furono particolarmente apprezzati -. Ma non solo: lo stesso Dio, ovvero la stessa fisionomia di cui si sarebbe costituito e gli stessi valori di cui sarebbe stato portatore sarebbero sempre dipesi dalla singola ed individuale capacità critica e di giudizio di ogni uomo. A ciascuno di essi sarebbe, dunque, spettato il compito di elevarsi culturalmente e di comprendere i reali valori della pratica cristiana di modo da poter esser testimoni, nelle vesti di cittadini, della nuova “forma” e fisionomia di Dio. Un Dio creato e legittimato dalla ragione di ogni singolo uomo illuminato, acculturato e dotato di senso e coscienza critica. Una grande fetta dell’enormità culturale dell’Illuminismo sei-settecentesco risiedette proprio in questa specifica dinamica: l’elevare la mente dell’uomo comune al fine di renderlo un moderno cittadino. Ma di cosa si costituiva, per i deisti, questo rapporto individuale Dio-Uomo? Quali i suoi contenuti? Qui si apre la discussione in seno alle leggi ed alla morale naturale.
Tra uomo e Dio, nella logica deista, vi era sempre una continua e perenne comunicazione. Un rapporto dialettico incessante – badate che il concetto di “dialettica” è filosoficamente errato in questo contesto dato che apparirà solo successivamente, in seno ai sistemi filosofici dell’ottocento -. Ma come può sussistere un così forte rapporto di reciprocità se il Dio deista è totalmente distaccato e disinteressato circa le questioni umane? Il legame Dio-Uomo ha un doppio livello di legittimazione. Innanzitutto è la stessa esegesi che impone che vi sia, sempre e comunque nel tempo, un rapporto dialogico tra il comune mortale e l’Essere Supremo. La reinterpretazione della fisionomia ontologica di Dio da parte della ragione e della criticità umana fa sì che Dio debba continuamente mutare con l’evolversi delle necessità e dei bisogni dell’uomo medesimo. Si apre qui una parentesi profondamente importante circa il deismo. Possiamo, infatti, sostenere che il deismo fu anche sinonimo di progresso socio-politico – come sostenuto ad inizio articolo, difatti -. Cerchiamo di affidarci alla logica per elaborare meglio il tutto. Prendiamo, intanto, in considerazione questa citazione di Bonanate:
Questo è il tratto che caratterizza più nettamente la nuova concezione, la disponibilità, cioè, ed il desiderio d’indagine. Il deista è un uomo che s’impegna ed è disposto a correre rischi. […] Rimane sempre la possibilità dell’errore, ma, in primo luogo, questo può sempre essere corretto per mezzo della ragione, e, in secondo luogo, le religioni rivelate sono esclusivamente un insieme di errori, senza la possibilità di raggiungere qualche verità definitiva.
Quel sopracitato “compromesso socio-politico”, che abbiamo trattato circa l’anticlericalismo, ha un valore molto più profondo. La domanda di partenza è la seguente: “Perché proprio questa fisionomia di Dio?” O, per riformulare meglio la questione: “Perché il Dio deista doveva essere compassionevole e misericordioso ma, al contempo, distaccato e distante?” Vi è, difatti, una precisa motivazione circa il perché i deisti evidenziarono proprio quella specifica descrizione ontologica del Supremo: quello era il Dio di cui le moderne Nazioni necessitavano, a detta loro. Dovete tenere a mente che sia l’Inghilterra che la Francia erano afflitte dalle Guerre di Religione. Fanatismo, intolleranza religiosa, dogmatismo, oscurantismo ed immobilità sociale erano solo alcune della caratteristiche che, all’epoca, “macchiavano” quei Paesi. L’ortodossia vigente era secolarizzata e le infrastrutture culturali ed istituzionali erano ferme sul mantenimento dello status quo. Ai deisti necessitava un Dio che potesse poi loro permettere, sul piano della riflessione politica e sociale, di parlare di pluralismo religioso, di riforma del sistema giudiziario – altra questione profondamente sentita in Francia -, di egualitarismo (civile o sociale) e persino di laicità. Dunque, vi era bisogno di un Dio che incarnasse solo e soltanto i precetti più virtuosi del Cristianesimo. Quei precetti che avrebbero diffuso pace ed ordine sociale tra tutte le genti di professione diversa. Ma il compito dell’esegesi non doveva esaurirsi in questo. L’immobilità sociale doveva essere sconfessata. Ridare all’uomo il ruolo centrale di attore e protagonista della realtà sociale traeva da tutto ciò la propria giustificazione: il Dio deista doveva essere un Dio concepito a dimensione umana, nel senso che doveva esser portatore anche di tutti quei valori nuovi ed alternativi che nelle epoche buie ed oscurantiste erano stati recepiti come peccati o apostasie. Ma questa logica non doveva secolarizzarsi a sua volta: nuovi valori, nuove richieste, nuovi diritti sarebbero potuti essere posti in essere e/o richiesti a gran voce e non poteva esser permesso che la teologia impedisse nuovamente l’evoluzione della storia umana. Il Dio deista doveva sempre legittimare e spronare qualsivoglia forma di progresso umano: sarebbe stata la ragione dell’uomo, quella stessa ragione che attraverso l’esegesi permetteva all’individuo di cogliere gli aspetti più virtuosi della religione, a evidenziare quali tra i nuovi precetti emergenti fossero poi meritevoli di un riconoscimento sia culturale che normativo. Non era più, dunque, necessario che il valore in sé rispettasse o meno quanto scritto nel testo sacro: la ragione dell’uomo doveva valutarlo e legittimarlo di conseguenza attraverso un’interpretazione illuminata del testo medesimo. La laicità al servizio della modernità, dunque. Vediamo adesso il secondo elemento costituente il rapporto Dio-Uomo e prendiamo spunto, nuovamente, da un’altra citazione di Bonanate:
Il pregio fondamentale della morale naturale è dunque di discendere direttamente da Dio senza essere adulterata dagli errori che inevitabilmente si sono inseriti in tutte le religioni positive. Oltre a questa garanzia, che ha per oggetto soprattutto il modo in cui l’uomo viene a conoscenza della legge morale, un’altra ha per oggetto la perfezione di questa morale: tutto ciò che è naturale è voluto dalla divinità, appartiene all’ordine che essa ha imposto all’Universo, il cui significato o modo di procedere non sempre l’uomo riesce a scoprire, ma della cui perfezione è assolutamente sicuro. Egli perciò può e deve accettarlo con la più completa tranquillità cercando di adeguarvisi.
Secondo l’ottica deista, le leggi naturali altro non sono che le leggi tramite le quali Dio provvede al corretto funzionamento del Mondo. Esse sono trascendentali ma possono essere tranquillamente apprese e scoperte dall’uomo. Quella gravitazionale di Newton ne fu un esplicito esempio per i deisti dell’epoca. Il fatto che Dio fosse distante e distaccato dagli affari terreni non significava che esso non fosse ad ogni modo “percepibile”: le leggi naturali provengono da lui e giungono all’uomo. Uomo che attraverso il proprio intelletto può studiarle e comprenderle. Ma è qui che terminava il trascendentalismo deista. O, comunque, l’indagine metafisica. Non si va oltre. Da una parte, i deisti sostenevano che, se taluni leggi o fenomeni risultassero di difficile discernimento, esso era imputabile al solo fatto che l’uomo, per il momento, ancora non possedesse i mezzi in grado per poterle comprendere. Dall’altra parte – ed è qui che risiede il nocciolo della questione – non doveva minimamente interessare, per qualsivoglia ricerca gnoseologica, addentrarsi oltre. L’uomo doveva solo e soltanto sapere che queste leggi avevano provenienza divina ed erano finalizzate al corretto funzionamento del Mondo. Studiarle per risalire a Dio era una procedura inutile e priva di alcuna utilità. Ma perché i deisti avrebbero dovuto porre dei limiti alla volontà ed alla capacità di ricerca della ragione umana? Cioè, mi spiego meglio: “Libertini che sminuiscono il raziocinio dell’uomo?!?” In realtà, ruota ancora tutto attorno a quel già oramai più volte citato “compromesso socio-politico” che stava alla base della dottrina deista. L’obiettivo pragmatico da perseguire in ambito sociale per i deisti era la fine dell’intolleranza religiosa che da secoli macchiava di sangue le Nazioni europee. Il Dio deista non solo avrebbe dovuto delegittimare la religione positiva, ma avrebbe anche dovuto non costituirsi di tutti quei valori sacri e profani sui quali, da secoli, le persone si uccidevano a vicenda. Il tabù, il dogma, il precetto teologico fondato sulla secolarizzazione e sull’indottrinamento doveva essere debellato. Dio esisteva. Punto. Non serviva sapere come si chiamasse o che volto avesse. L’anima era immortale ed immateriale. Non era necessario perdersi in disquisizioni per cercare di capirne il motivo. Ma la sottigliezza risiede tutta qui. Quella che a prima vista può apparire come una rinuncia alla scoperta ed alla conoscenza, altro non era che un deterrente sociale per impedire la diffusione del fanatismo e della superstizione. Quelle erano le tematiche teologiche attorno alle quali tutte le credenze continuavano ad odiarsi da secoli: spazzarle via avrebbe permesso l’attuazione del pluralismo religioso. Ma allora il deismo, alla fin fine, cos’era? Una dottrina fondata sull’esegesi dei testi sacri, nella quale Dio è giustificato dalla ragione umana fin negli stessi valori di cui è portatore, che voleva affermarsi come ortodossia vigente nonostante auspicasse un saldo pluralismo religioso, come può essere definita? Come una semplice morale. Il deismo era una morale, un’etica, un mero appello alla fede intesa in senso lato. Una fede, per lo più, intrisa dei valori più umanitari concernenti il Cristianesimo – Voltaire la integrò, soprattutto, con alcuni precetti di alcune eterodossie cristiane come il quaccherismo ed il socinianesimo -. Uno stile di vita che permettesse ad ogni cittadino di vivere il proprio credo nel pieno rispetto dell’altrui credenze perché tale era la volontà del Dio deista; Dio dal cittadino stesso legittimato ad esistere. Ecco perché il deismo venne proclamato come la “religione del laico”: la laicità era legittimata dalla condivisione di una morale di provenienza divina filtrata però, sempre e comunque, dal raziocinio dei cittadini acculturati ed illuminati. Un perfetto circuito dialettico – e perdonate di nuovo l’uso di tale termine -.
Arrivati a questo punto, ritengo opportuno trattare anche il deismo volterriano, di modo da poter così disporre di un quadro di riferimento particolarmente esaustivo su questo tema.
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