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A chi ricerca la verità, almeno una volta nella vita accade di dubitare di tutto, per quanto è possibile.
Questo passo, tratto dai Principia Philosophiae, ci permette adesso di procedere verso lo step successivo della deduzione sistemica cartesiana. Consentendoci di affrontare il problema di Dio, del «genio maligno» e del dubbio metodico – dinamica quest’ultima fondamentale per la corretta comprensione del razionalismo di Descartes -.
La logica fondante il metodo cartesiano è rappresentata dal già sopracitato dubbio metodico: stando alle riflessioni di Descartes, per avviare qualsivoglia indagine epistemologica, con l’intento di giungere alla vera conoscenza, è assolutamente imprescindibile e necessario dubitare di tutto, poiché nessun oggetto di studio, a priori – fatta eccezione per le «verità prime» -, può essere ritenuto certo, evidente e del tutto alieno da ogni forma d’incertezza. Partendo da questo presupposto, il dubbio metodico implica, soprattutto, una ben precisa conseguenza: è fondamentale, innanzitutto, dubitare dei propri sensi. Per il razionalista, l’esperienza e la mera percezione sensoriale della realtà circostante possono sì veicolare lo studioso alla vera conoscenza, persino attraverso una rettifica da essa stessa promossa nei riguardi di una precedente dichiarazione di carattere epistemologico – a tal riguardo, potremmo esporre l’esempio del frutto ancora non maturo: Descartes afferma che, qualora la vista ci abbia ingannato, facendoci credere che quel frutto sia già maturo, il toccarlo o, semplicemente, l’osservarlo in seguito, con maggiore attenzione, potrebbe anche spronarci a rettificare il nostro precedente giudizio -, ma mai in un modo aprioristico. Ciò che viene filtrato direttamente dai sensi – e, dunque, tutto ciò che appare essere come direttamente percepibile e recepibile -, non può automaticamente essere etichettato come vera conoscenza per Descartes.
La rigida razionalità dell’applicazione al metodo del dubbio diviene così estrema in Descartes che lo stesso razionalista giunge, addirittura, a sostenere che persino lo stato di veglia possa non essere del tutto certo. Perché, magari, l’intera vita è un sogno. Una illusione dei sensi – tematica questa affrontata nelle Meditazioni Metafisiche e tale da portare, in seguito, il razionalista ad interrogarsi sulla necessarietà di possedere un corpo per poter pensare -. Perché le capacità sensoriali sono ingannatrici e non divulgatrici automatiche di pura verità intellegibile.
Arrivati a questo punto, può, effettivamente, risultare molto chiaro il perché tutte le scienze empiriche, per Descartes, non possano assolutamente essere prese come parametri guida per la ricerca epistemologica strincto sensu. Solo la matematica e la geometria restano esenti dal dubbio metodico; perché si presentano agli occhi del razionalista come non soggette, in alcun modo, a metri e parametri di giudizio fondati sui sensi o sull’esperienza. “Che io sia sveglio o che dorma, indipendentemente anche dal fatto che io riesca a capire in quale dei due stati mi trovi, 2+2 farà sempre e soltanto 4″. Questo avrebbe affermato Descartes. Concetti come il volume, la linea, un punto nello spazio, l’estensione dei corpi et similia, sono verità ed assiomi incontrovertibili. Questo è il primo passo che lo porterà poi ad elaborare il concetto di res cogitans. Ma sarebbe un errore pensare che Descartes delegittimi, così facilmente, la sua ossessiva esaltazione del dubbio metodico. E, difatti, non è così.
Il razionalista, ad un certo punto, giunge persino a chiedersi se i precetti geometrici e matematici possano essere viziati (anche loro) da incertezza e falsità. Per legittimare logicamente questo razionale tentativo di “autoboicottamento” del suo stesso metodo, Descartes formula la fisionomia ontologica di quello che chiamò «genio maligno». “Forse, in termini aprioristici, nemmeno le verità matematiche e geometriche sono portatrici di vera conoscenza, perché un genio maligno potrebbe influenzare le nostre menti e portarci a sostenere che 2+2=4, quanto in realtà magari 2+2=5”. Questo, a grandi linee, potrebbe essere lo stereotipo del pensiero cartesiano, che potremmo utilizzare nel tentativo di spiegare la dinamica legata al sopracitato genio. Si tratta di una congettura che, ai giorni nostri, può apparire molto assurda e ridicola, ma dobbiamo comunque tenere bene a mente che, per tutto l’arco del XVII e XVIII secolo, la trascendentalità di Dio – e della metafisica, in generale – influenzò in toto il panorama filosofico. Come liberarsi dalla possibile ed ipotetica influenza del «genio maligno», dunque? Beh, qui Descartes deve mettere da parte la sue vesti di razionalista per giungere ad un vero e proprio compromesso concettuale che, almeno in teoria, non delegittimi troppo tutto il suo impianto gnoseologico. Giunge ad affermare che ogni forma di verità logica, morale e matematica sia contingente a Dio.
Ora, il concetto di “contingenza” è particolarmente complesso in filosofia. Risolviamo pure la questione in questo modo: ipotizziamo che la verità matematica 2+2=4 sia l’evento A e che Dio sia l’evento B. Se accettiamo il ragionamento di Descartes – ogni verità è contingente a Dio -, allora A è contingente a B, il che significa che l’evento A si verifica solo al verificarsi dell’evento B. Quindi 2+2=4 perché Dio esiste. E Dio non può essere posto a dubbio alcuno, all’interno del metodo, perché ne è la verità prima. Il riconoscimento della superiorità della metafisica – della “sua” metafisica – sui precetti matematici, non è funzionale al disconoscimento della rilevanza degli stessi. Questo “compromesso cartesiano”, in quanto tale, è finalizzato solo e soltanto al raggiungimento di un preciso obiettivo pragmatico: legittimare i fondamenti della matematica usando come “garante” l’ontologia stessa di Dio. Si tenga a mente che la “contingenza cartesiana” è legata alla dottrina della “creazione continua” – che avrebbe poi generato la corrente di pensiero definita “occasionalismo” -. In sintesi si ritiene che la conservazione di un ente finito – come l’uomo, ad esempio – si identifichi con una vera e propria creazione dello stesso in ciascuna frazione di tempo che si sussegue. Se A esiste al tempo t, allora deve esistere anche al tempo t+n, indipendentemente, da quanto infinitesimale possa essere n. La finitezza, quindi, significa il non essere causa di sé ma, bensì, il dipendere da altro. Nella contingenza (radicale) di Descartes, questo “altro” è Dio che è, appunto, causa di sé medesimo.
Stando, dunque, al ragionamento cartesiano e prestando sempre attenzione all’impianto sia logico che filosofico su cui poggia il suo metodo, ogni verità matematica e geometrica non può essere più inficiata da alcun dubbio, a patto che di essa ne venga colta la contingenza con Dio. Altrimenti non è da escludere una possibile influenza del «genio maligno». Ma, se né le scienze matematiche né quelle naturali possono, aprioristicamente, esentarsi ipso facto dal dubbio metodico, quale principio può allora essere accolto fin da subito come certo, evidente e perfetto? Uno solo: il «cogito, ergo sum.» Il famigerato «penso, dunque sono» altro non è che il risultato delle deduzioni logiche – giustificate dal dubbio metodico – rivolte nei riguardi di ogni campo d’interesse e di ricerca epistemologica. Il dubitare di tutto, percorrendo tutti i tasselli logici-razionali-matematici del metodo, conduce a questa atavica verità:
Ma subito dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, così, che tutto è falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità: penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le posizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo accoglierla senza timore come il primo principio della filosofia che cercavo.
La formula del «penso, dunque sono» non assume però una struttura sillogistica. Il cogito cartesiano non può ridursi ad una logica del tipo: “tutto ciò che pensa, esiste, e dato che io penso, allora anch’io esisto”. E per un semplice motivo: per sapere che tutto ciò che pensa, esiste, dovrei esser certo (a priori) che anch’io penso e che perciò esisto. Se fosse vera una tale mia consapevolezza aprioristica sulla res cogitans, non necessiterei allora di questa premessa – “penso, dunque sono” – per arrivare a concepire come certa la mia esistenza. Strutturiamo il cogito nel seguente modo, invece:
se A pensa, allora A (necessariamente) esiste → ma io penso → dunque, io esisto
In questo modo il primo punto è una premessa modale, che serve da regola d’inferenza. Presa da sola, resta una congettura non universale e, quindi, non in grado di farci conoscere alcuna esistenza. Però – proprio perché inferente – ci permette di comprendere come qualcosa possa anche esistere, qualora si aggiungesse la seconda riflessione (“ma io penso”) – che deve essere accertata però in modo indipendente, altrimenti lo scopo del metodo e i risultati delle sue stesse deduzioni verrebbero meno -.
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