VERSO IL SISTEMA ARISTOTELICO: PRIME NOZIONI.


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Ontologicamente parlando, l’essere si divide secondo precisi “generi”, ripartiti, a loro volta, in “categorie”. Una delle distinzioni categoriali più rilevanti è quella tra “sostanza” – cui appartengono entità dotate di autonoma esistenza – e “quantità” – cui appartengono entità esistenti in quanto numerabili e, quindi, quantificabili -. La divisibilità della realtà secondo generi evidenzia la necessità di dotarsi di una specifica conoscenza teorica nel relativo sapere di cui il genere medesimo è portatore. Facciamo un esempio, sfruttando il concetto aristotelico di “necessità”. Il fatto che una diagonale divida un quadrato in due triangoli rettangoli equivalenti è una “necessità incondizionata” che deriva da ciò che il quadrato è sulla base della sua reale essenza – la “necessità incondizionata” risponde al principio “ciò che è” -. Al contrario, invece, il fatto che un embrione debba venire nutrito dalla madre, affinché si realizzi la finalità del processo generativo – la nascita -, è una “necessità indispensabile” – si parla di “necessità ipotetica e/o condizionale”; il principio al quale la stessa risponde è del tipo “ciò che sarà” -. Le parole dello stesso Aristotele riassumono molto bene quanto appena esposto:

[…] necessità significa talvolta che se dovrà essere un certo fine, è necessario che si verifichino certe condizioni; talaltra che le cose sono così e lo sono per la loro stessa natura.

Sulla scia di quanto visto in seno al concetto di “necessità”, si prenda in considerazione quello di “finalità”. Questo paradigma può assolvere numerose funzioni epistemologiche in riferimento a particolari contesti: quando un uomo compie un’azione, ad esempio, la stessa può venire spiegata in riferimento al fine per il quale l’individuo medesimo l’ha eseguita, focalizzando cioè la propria attenzione sul bene e/o sul vantaggio desiderato. Allo stesso modo, il fatto che in alcuni animali si noti la crescita di zanne o artigli può venire compreso in seno alla capacità di difesa o di attacco di cui i medesimi siano chiamati a dotarsi per sopravvivere. E via discorrendo. Ma la “finalità” non può essere utilizzata in riferimento ad ogni campo d’interesse epistemologico: ad esempio, il fatto che i numeri pari siano divisibili per due non rientra in alcuna spiegazione finalistica e/o di perseguimento di una particolare forma di vantaggio o bene.

Un’altra distinzione è quella tra “saperi pratici” e “saperi teorici”. Nei primi, afferma Aristotele, rientrano i comportamenti umani. Nei secondi, invece, le seguenti dottrine: fisica, matematica e teologia. La distinzione tra le due sopracitate forme di sapere serve per ribadire quanto esposto poc’anzi: nei riguardi di ogni genere di realtà, per fini meramente epistemologici, occorre dotarsi di una forma di conoscenza adatta e congeniale. Nuovamente le parole del filosofo appaiono essere alquanto esaustive:

[…] non bisogna ricercare la precisione nella stessa misura in tutti i discorsi, ma in ogni singolo caso per quanto lo permette la materia trattata e nella misura in cui è appropriata all’indagine condotta. Così anche un muratore e uno studioso di geometria si occupano in modo diverso dell’angolo retto, il primo nella misura in cui è utile al suo lavoro, l’altro nella sua essenza e nelle sue proprietà, perché è uno studioso della verità.

Ogni genere della realtà, dunque, presenta una propria legalità intrinseca. E a ciascun genere della realtà deve essere rivolta una metodologia di studio ed una conoscenza teorica precisa. Questo può significare soltanto una cosa: queste porzioni di realtà sono autonome e alle stesse devono venire ascritte trattazioni disciplinari separate e specifiche. Per Aristotele, quindi, è da denigrare qualsivoglia forma e/o qualsivoglia tentativo di trasgressione epistemologica da una regione ad un’altra. Non è possibile che una scienza dimostri e/o giudichi le asserzioni di un’altra scienza: «Le cose differenti per genere non consentono nessun passaggio dall’una all’altra, sono troppo lontane e non sono comparabili».

Tracciamo adesso, a grandi linee, la struttura portante della struttura aristotelica dell’essere:

  • esistono entità prive di materia, immobili ed invarianti. Queste entità possono appartenere alla categoria della “sostanza” e della “quantità”. Nel primo caso sono dotate di esistenza autonoma – è l’esempio della divinità -; nel secondo caso, hanno proprietà numerabili e quantificabili. Si tratta degli enti matematici; anch’essi sono immutabili ed immobili, e traggono la propria esistenza dalle stesse proprietà numerabili di cui sopra;
  • esistono entità costituite di materia e, quindi, soggette al mutamento – materia e mutamento sono concetti “coestesi” nella filosofia aristotelica: dove c’è l’uno, c’è l’altro e viceversa -. Una prima categoria è costituita da tutti quegli enti che sono formati da una materia eterna ed indistruttibile. È il caso degli astri che si muovono con un movimento circolare, eterno ed invariante. Una seconda categoria è formata dalle sostanze naturali. La loro materia è corruttibile, presentano ogni tipo di movimento e sono soggette al ciclo della generazione e del dissolvimento. Questi corpi naturali si dividono a loro volta in altre due sottocategorie. La prima è composta dagli enti privi di vita – privi di anima -. Sono inorganici ed il loro comportamento dipende, solo e soltanto, dal tipo di materia di cui si costituiscono (ad esempio, i fenomeni celesti). La seconda categoria, invece, è formata da tutti gli enti viventi, dotati di anima e costituiti dalle diverse forme della stessa. È proprio la forma dell’anima a distinguerli ulteriormente: i vegetali – dotati della sola facoltà nutritiva e riproduttiva – e gli animali – dotati anche della facoltà percettiva -;
  • esiste poi l’uomo che appartiene tanto al Mondo della Natura quanto al Mondo della Conoscenza, in quanto è l’unico essere vivente ad essere dotato di ragione – logos -.

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