ZENONE E I PARADOSSI IN DIFESA DEL MONISMO PARMÈNIDEO.


La divinità descritta da Parmènide è una diretta conseguenza delle riflessioni di Senofane – uno dei più grandi critici della diffusa e condivisa visione antropomorfica del Divino -. Il Dio parmènideo è infinito, eterno (nel senso di essere atemporale), ingenerato, immobile, unico ed indivisibile – nella visione di Senofane viene spesso paragonato, infatti, ad una sfera perfetta -. Parmènide ha talmente a cuore il sollecitare l’indagine e la ricerca verso questo “piano” di realtà, da giungere a sostenere come essere e pensare siano la stessa cosa. Il che comporta una importante conseguenza epistemologica. Se l’essere è il Divino e se il pensare coincide con lo stesso, il filosofo allora deve volgere verso quel mondo la propria ricerca, alienandosi dalla realtà sensibile che – guarda caso! – si mostra agli occhi di Parmènide non unica e definita ma, al contrario, molteplice, illusoria e permeata da particolarismi.

A difesa di questa visione monistica, troviamo Zenone, discepolo di Parmènide e ritenuto essere uno dei grandi padri fondatori della dialettica. Quest’ultima è resa celebre dai famosi paradossi, i quali evidenziano l’intento dialogico di Zenone: smontare la credibilità e legittimità della tesi sostenuta dall’altrui interlocutore, evidenziandone l’assurdità di fondo. Volgiamo lo sguardo verso due delle più celebri argomentazioni zenoniane. Nello specifico, prendiamo in considerazione il paradosso di Achille che insegue una tartaruga e quello riguardante una freccia scoccata da un arciere.

Poniamo il caso che la nostra tartaruga riesca a coprire 1 metro al secondo, mentre Achille ben 10 metri al secondo. L’animale parte con 9 metri di vantaggio. Zenone è convinto che il pelide non riuscirà mai a raggiungerla e che la sua finirà ben presto con il rivelarsi una rincorsa infinita. Ma perché?

In 0,9 secondi Achille raggiunge il punto in cui si trovava la tartaruga al momento della partenza. Quest’ultima, però, non è rimasta ferma; al contrario, si è mossa di altri 0,9 metri. Achille, quindi, deve impiegare altri 0,09 secondi per raggiungerla. Ma ci troviamo di nuovo nella stessa situazione di poc’anzi: l’animale, infatti, ha coperto altri 0,09 metri, obbligando così l’eroe ad impiegare ulteriori 0,009 secondi per agguantarla. Nuovamente la tartaruga avrà però corso per altri 0,009 metri, distanziandosi ancora dal suo inseguitore. Il tutto si ripete all’infinito ed Achille non raggiungerà mai l’animale.

L’intero paradosso si fonda sulla premessa secondo la quale una linea possa essere divisa in infiniti tratti e, proprio perché infiniti, il movimento esercitato lungo la stessa non porterà mai a coprire uno spazio finito e limitato. In breve, quindi, la molteplicità spaziale rende illusorio il movimento nei riguardi proprio di una dimensione, per l’appunto, spaziale.

Ciò che rende oggi anacronistico ed errato il paradosso zenoniano è la consapevolezza algebrica che la somma di infiniti addendi possa tranquillamente dare un numero finito. Quindi sì, alla fine Achille riuscirà ad acchiappare questa tartaruga dalle così incredibili movenze. Prendiamo adesso in considerazione l’altro paradosso di Zenone, altrettanto conosciuto e famoso: quello della freccia.

Ipotizziamo che un arciere scocchi una freccia. La stessa, nel punto in cui ancora non va trovandosi, non è in movimento. Ma, al contempo, risulta essere immobile anche nel punto in cui è giunta, dato che lo spazio che occupa altro non è se non quello coperto dalla sua stessa forma. Quindi, afferma Zenone: un oggetto che non si trova in un luogo non è in movimento proprio come un oggetto che si trova in un luogo continua a restare fermo. Il ragionamento non è distante da quello visto poc’anzi: anche il tempo è divisibile in infiniti intervalli… com’è possibile, dunque, ascrivere ad esso un qualsiasi tipo di movimento finito? Come Achille raggiunge solo apparentemente la tartaruga così la freccia sembra muoversi ma, in realtà, fin da quando viene scoccata, continua a restare ferma. Il movimento, quindi, è ancora una volta illusorio, visto e considerato che non può “godere” di alcun parametro di tipo temporale.

Mentre il primo paradosso permette a Zenone di ribadire l’immobilità del Divino, il secondo si sofferma a sottolineare l’atemporalità dello stesso.

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