LA GNOSEOLOGIA PONTYANA.


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Cerchiamo di comprendere adesso l’iter conoscitivo, adottato dal filosofo francese, per tentare di spiegare in che cosa consista questa “fede percettiva”, alla quale la filosofia debba ridursi, per la comprensione dell’io e del Mondo. Riprendiamo l’esempio della lampada, già affrontato nel post precedente. E riprendiamo l’impasse epistemologica dovuta alla difficoltà di non riuscire a cogliere il lato non visibile della stessa. La dinamica conoscitiva pontyana si struttura in tal modo:

Sto osservando la lampada posta dinanzi a me. Il mio punto di vista prospettico fa sì che io ne percepisca una sua “certa” dimensione.

L’identificazione, quindi, di ciò che sto percependo (la lampada), ora e qui, mi permette di coglierne la grandezza – una grandezza “prospettica”; sfruttando gli studi sulla prospettiva, posso affermare che la grandezza effettiva della lampada non può venire stabilita dalla sua dimensione “apparente”, poiché quest’ultima non mi è mai data, visto che tutto verte e dipende dall’angolo di veduta prospettica, adottato in questo preciso istante -.

Dell’oggetto che sto percependo non posso nemmeno dedurne il colore reale. Non posso, infatti, fare affidamento né all’illuminazione naturale dell’ambiente né a quella artificiale, per giungere ad una conclusione certa; entrambe dipendono dal tempo (anche atmosferico) e dall’ora del giorno. Il reale colore dell’oggetto potrà allora “aprirsi” a me solo e soltanto quando la stessa illuminazione verrà meno.

Dalla percezione dell’oggetto, posso dedurre allora che, nei riguardi dello stesso, io non posso conferire una “sintesi intellettuale”. Potrò allora rivolgere all’oggetto percepito o una “sintesi di transizione” o una “sintesi di orizzonte”. “Una sintesi di transizione” può esaurirsi in un mero “tocco la lampada e ne anticipo così il suo lato non visibile”. “Una sintesi di orizzonte”, al contrario, può farmi comprendere che quel lato non visibile mi è comunque “annunciato altrove”, in modo imminente ed in questo stesso momento (“se mi alzo e cambio prospettiva, posso coglierlo”).

Comprendo allora che la mia impossibilità a ridurre l’oggetto della mia percezione ad una mera sintesi intellettuale derivi dal fatto che l’oggetto stesso, da me percepito, non sia di per sé un atto intellettuale. È una somma di vedute prospettiche. Tutte le vedute lo riguardano. Ma nessuna lo esaurisce del tutto – «La percezione è qui intesa in relazione a un tutto che, di principio, è comprensibile solo attraverso alcune sue parti o alcuni suoi aspetti. La cosa percepita non è un’unità ideale posseduta dall’intelligenza, come ad esempio una nozione geometrica, è una totalità aperta all’orizzonte di un numero indefinito di vedute prospettiche che concordano secondo un certo stile, stile che definisce l’oggetto in questione. La percezione è dunque un paradosso, e la cosa percepita è essa stessa paradossale: esiste solo in quanto qualcuno può percepirla.» -.

Mi rendo conto che, in quanto percipiente, io finisca con l’identificarmi de facto con il mio stesso corpo. Anche nel caso bizzarro in cui immaginassi un luogo che non ho mai visitato, il fatto stesso d’immaginarlo finirebbe con il rendermi “presente” in quel luogo. Dunque, nella percezione vi è un qualcosa di assolutamente imprescindibile: il mio corpo. Non può esistere ambiente e/o realtà a me non percepibile e nella quale io non sia presente.

Ma nessun luogo percepito e/o oggetto percepito si “apre” a me del tutto. Questo mi porta a cogliere un paradosso intrinseco alla fede percettiva. Un paradosso che coinvolge, reciprocamente e nello stesso tempo, l’immanenza del Mondo sensibile – “niente mi è estraneo” – con la sua stessa trascendenza – “vi è sempre un al di là di ciò che mi è dato” -.

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