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È sicuramente corretto sostenere come tutta la teoria visiva berkelyana si fondi sulle associazioni tra le idee della vista e le idee del tatto. Con questa formula potremmo, infatti, riassumere quanto sostenuto fino ad ora. Ma – ed è questo l’argomento che dobbiamo approfondire adesso – le idee della vista e le idee del tatto costituiscono ambiti di esperienza assolutamente eterogenei. Ovvero: nessuna idea visiva può permettere l’intuizione di un’idea tattile. E viceversa. Berkeley sottolinea come ciascun senso si limiti a percepire solo i propri oggetti. E che la relazione associativa fra di essi possa dipendere solo e soltanto da uno «spirito» – ma di questo ci occuperemo più avanti -. Per evidenziare la discontinuità percettiva tra vista e tatto, il filosofo inglese tratta il caso dell’uomo nato cieco, che riottiene l’uso della vista solo in età adulta.
Se un uomo, cieco dalla nascita, dovesse riacquistare l’uso della vista, il giudizio (visivo) formulato sugli oggetti sensibili sarebbe sicuramente dissimile da quello espresso dagli altri individui. Un individuo cieco si affida, difatti, al tatto per comprendere, da un punto di vista percettivo, le idee di grandezza e di distanza, ad esempio. Tutto ciò che pensa nei riguardi del Mondo sensibile viene concepito essere sempre al di fuori della sua mente. Un cieco si affida sicuramente a considerazioni del tipo “superiore/inferiore” o “alto/basso”, ma in un’ottica, solo e soltanto, tangibile. Proprio perché queste percezioni tattili vengono suscitate da come il suo corpo si pone nei riguardi dell’ambiente circostante – come il muovere un braccio per calcolare un’eventuale distanza, ad esempio -. Nel caso dovesse riacquistare la vista, gli oggetti della visione non potrebbero essere ricondotti a quelli del tatto. La vista potrà istruirlo sul fatto che quel particolare oggetto si trovi adesso lontano da lui, perché il movimento dei bulbi oculari gli permettono di percepirlo come “alto” o “superiore”. Ma, in ogni caso, si tratterebbe di un “alto” e di un “superiore” distinto da quello percepito tramite il tatto. Si renderà, quindi, necessario il promuovere quante più esperienze percettive possibili, al fine di cogliere questa verità: vista e tatto si affidano ad idee totalmente dissimili, le une dalle altre. E questo nonostante sia lo stesso Berkeley ad essere consapevole di come risulti facile commettere l’errore gnoseologico di considerarle identiche – o tutt’al più coincidenti –:
Nel primo atto di visione nessuna idea introdotta attraverso l’occhio avrebbe una connessione percepibile con le idee alle quali sono connessi i nomi terra, uomo, testa, piede, etc., nell’intelletto di una persona cieca dalla sua nascita; così come non potrebbe in alcun modo essere introdotta nella sua mente, o essere chiamata con gli stessi nomi, o essere ritenuta la medesima cosa di quelle, come in seguito avverrà che sia.
Occorre fare però una precisazione. Un individuo cieco non può usufruire delle connessioni tra le idee della vista e quelle del tatto, ovviamente. Ma resta innegabile però un aspetto. Nel caso riassumesse la vista, l’esperienza tattile darebbe “intuizione” a quella visiva: ad esempio, saprebbe riconoscere subito la sua testa. Esattamente come i suoi stessi piedi. La verità è che dobbiamo fare un piccolo passo indietro e porci questa domanda: “Come può una persona cieca dalla nascita, prima di riacquistare la vista, sapere che quegli oggetti tangibili (testa e piedi) saranno connessi, nel primo atto di visione, agli oggetti della vista (testa e piedi)?”. La risposta ce la fornisce lo stesso filosofo:
La verità è questa: le cose che vedo sono tanto differenti ed eterogenee dalle cose che tocco che la percezione delle une non avrebbe mai suggerito le altre ai miei pensieri, o mi avrebbe reso capace di emettere il minimo giudizio su queste, se non avessi sperimentato la loro connessione.
Le idee della vista e le idee del tatto, dunque, sono connesse tra di loro ma mai coincidenti, dato che poggiano su esperienze percettive distinte. Un oggetto, ad esempio, può essere “alto” in conformità alla distanza che intercorre tra esso stesso e la terra tangibile; esattamente come un altro oggetto può apparire “alto” in riferimento alla distanza che lo separa dalla terra visibile. Ma definire la distanza tangibile partendo da quella visibile, e viceversa, è inintelligibile:
L’estensione, le figure, e i movimenti percepiti dalla vista sono specificatamente distinti dalle idee del tatto chiamate con gli stessi nomi, e non c’è alcuna cosa come un’idea, o un genere di idee, comune a entrambi i sensi.
Concludo con un’ultima osservazione. Prendendo spunto dalle riflessioni di Locke, Berkeley pone il seguente caso. Supponiamo di avere un individuo, cieco dalla nascita, che ha potuto percepire tramite il tatto due oggetti, realizzati con il medesimo materiale. Ipotizziamo che il primo sia un cubo. Mentre il secondo abbia forma sferica. Stando a quanto appena sostenuto, nel caso in cui tale percipiente dovesse recuperare la vista, nel primissimo atto di visione, le idee della suddetta non sarebbero in grado di dirgli quale sia il cubo e quale la sfera. Ebbene, è tutto corretto ma occorre fare un’ulteriore precisazione a tal riguardo.
In realtà il filosofo inglese ritiene che una “piccola indicazione” la visione possa anche essere in grado di fornirla. Poniamoci la seguente domanda: “Sarebbe tanto assurdo ritenere che un cubo visibile risulti, fin da subito, più “vicino” ad un cubo tangibile, più di quanto possa mai esserlo una sfera visibile?”. Nonostante l’assenza delle idee della vista ed il mancato sviluppo delle connessioni tra la medesima ed il tatto, è innegabile che il quesito di cui sopra possa (anche) riscuotere un giudizio positivo. Ma come può essere legittimato tutto questo? Affidiamoci ancora alle parole di Berkeley:
Rispondo che deve essere riconosciuto che il quadrato visibile è più adatto del cerchio visibile a rappresentare il quadrato tangibile, ma non perché sia più simile, o dello stesso genere, ma in quanto il quadrato visibile contiene diverse parti distinte, grazie alle quali indica le diverse parti distinte corrispondenti di un quadrato tangibile, mentre il cerchio visibile non le contiene. […] Da questo non segue che qualsiasi figura visibile sia simile alla sua corrispondente figura tangibile, o che si del medesimo genere […] osservo che le figure visibili rappresentano le figure tangibili nello stesso modo che le parole scritte rappresentano i suoni. […] Così la lettera singola a è adatta a indicare un suono semplice e uniforme; e la parola adulterio è adatta a rappresentare il suono annesso a essa. […] E presumo che nessuno dirà che la lettera singola a, o la parola adulterio, siano simili ai rispettivi suoni da queste rappresentati, né dello stesso genere.
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