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La teoria visiva di Berkeley si fonda su di un presupposto filosofico ben preciso: confutare il metodo che sta alla base dell’ottica geometrica. Essa si fonda su tre assiomi portanti:
- gli oggetti sensibili sono ontologicamente indipendenti dalla mente e questo perché la luce, nel suo tragitto dall’oggetto all’occhio, forma solo immagini degli oggetti sensibili e non fornisce informazioni sulle loro qualità primarie;
- di conseguenza, tra gli oggetti e le immagini, che di essi la luce proietta sull’occhio, vi è una relazione di causalità, dove questo rapporto di causa/effetto risulta essere spiegabile solo in termini meccanicistici;
- quindi la vista ci fornisce solo immagini di oggetti e non veri e propri oggetti strincto sensu.
Berkeley al concetto di causa sostituisce quello di «segno» ed a quello di Natura, intesa come mero meccanismo, quello di Natura, nel senso di «linguaggio». Tutte queste riflessioni ci introducono all’immaterialismo berkelyano. Sono, dunque, di particolare importanza per l’intera trattazione a venire.
Le idee non sono legate tra di loro da ordini e/o relazioni di causalità. Ma bensì solo e soltanto da legami di tipo associativo. In poche parole, possiamo sostenere di “attenderci” una particolare idea solo perché abbiamo già avuto modo di “sperimentarla” in connessione a qualche altra idea (magari già percepita). È da questa congettura che nasce il concetto di «segno». Ogni idea è segno di qualche altra idea. L’esperienza lato sensu non è una concatenazione di eventi legati tra di loro da rapporti di causalità, ma bensì una successione di idee regolata da associazioni abituali. E queste associazioni, proprio perché sono abituali, richiedono una costanza nella successione delle idee stesse; quindi, dato che l’esperienza è formata da segni e da regole di successione per gli stessi, allora la medesima assume la forma del «linguaggio». Il linguaggio, difatti, è composto da segni e da regole per l’associazione dei segni.
È proprio il ruolo ricoperto dalla nozione di «segno» a rendere Berkeley un immaterialista. O un antisostanzialista, ad ogni modo. È questo a segnare il passaggio da una concezione sostanzialistica dell’oggetto percepito ad una più marcatamente fenomenica. Berkeley parla di oggetti, di qualità sensibili e di idee. Non di sostanza. Non di materia. Se fra le idee e gli stati fisici vi fossero delle relazioni causali, dovremmo allora riferire le prime ai secondi, ipotizzando quest’ultimi proprio come esistenti in forma assoluta. Dovremmo cioè immaginare un qualcosa che si trovi “dietro” alle idee fenomeniche, come un Noumeno platonico, ad esempio. Ma dato che la relazione di causalità è negata (a priori), le idee restano solo abitualmente associate e tali associazioni, grazie al linguaggio, sono riconosciute sulla base della costanza associativa stessa.
Berkeley, in tal modo, giunge a minare i fondamenti ontologici dell’esperienza materialistica e meccanicistica, facendo fluttuare il proprio empirismo tra l’immaterialismo e l’idealismo. Vengono meno due concetti portanti della trattazione filosofica precedente: la sostanza e la causa. Ma siamo appena all’inizio della comprensione della profondità delle riflessioni berkelyane.
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