MORALE E SOCIETÀ: PARTE PRIMA.


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Come anticipato nell’articolo precedente, Mandeville non è un contrattualista. Segue, quindi, da tale premessa la seguente domanda: “Come e per quale motivo viene ad instaurarsi tra gli individui un contesto sociale organizzato?”. Possiamo sviluppare l’argomentazione, soffermando l’attenzione su tre particolari fasi concettuali del pensiero del filosofo. Prendiamo intanto in considerazione le prime due.

In un primo momento, Mandeville sostiene che la “virtù morale” altro non sia che una vera e propria «teoria dell’impostura». La morale viene vista cioè come un’invenzione posta in essere dai politici e dai legislatori, al fine di trasferire l’uomo dal suo stato di natura a quello sociale. Il tutto avviene nell’inganno di far credere a quest’ultimo come tale passaggio sia vantaggioso per il controllo (virtuoso) delle proprie passioni innate, quando, in realtà, l’intento è solo e soltanto quello di governarlo e comandarlo. Gli uomini, colti all’interno del proprio stato di natura, si palesano essere come animali non spronati alla socialità: risulta, dunque, necessario ingannarli per convincerli ad abbandonare siffatta situazione – la forza bruta e la mera coercizione potrebbero produrre più svantaggi che effetti benefici per un tal fine -. Il sopracitato inganno si costituisce, secondo Mandeville, di una vera e propria “adulazione”, mossa dai legislatori nei riguardi degli individui; questi vengono plagiati e manipolati attraverso l’elogio dell’onore ed il diniego dell’infamia – due concetti che rimandano, rispettivamente, tanto all’orgoglio quanto alla vergogna –. La condotta dell’uomo, verso cui i legislatori veicolano lo stesso, tiene conto di queste due passioni umane, dove l’onore – ovvero, il “vivere in modo onorevole” – funge da predittore per il perseguimento di interessi privati e pubblici. Si tratta, quindi, di un’arte adulatoria tramite la quale i legislatori indirizzano tanto i comportamenti quanto i giudizi dei cittadini – giungendo a rendere possibile ciò che dicevamo in precedenza: il vizio privato può recare anche un vantaggio pubblico. Dopotutto si tratta di una morale viziata a priori dato che l’orgoglio, al pari della vergogna, altro non è che una imperfezione morale dell’uomo -. Prendiamo adesso in considerazione la seconda fase costituente il pensiero mandevilliano.

Dobbiamo riflettere circa il cosiddetto “antirazionalismo” di Mandeville. Secondo il filosofo, infatti, l’uomo è inevitabilmente succube delle proprie passioni. Esse si palesano essere in grado di governarne interessi ed intenti dell’individuo, a turno e/o a più riprese, indipendentemente dalla volontà del medesimo – potrebbe essere interessante, invero, fare una comparazione con le passioni trattate da Hume -. Questo non significa che l’uomo sia totalmente incapace di riflettere e/o di esprimere valutazioni – anche corrette – circa quanto compiuto o desiderato; l’antirazionalismo tende, piuttosto, ad evidenziare come siffatte capacità restino, in ogni caso, per forza di cose, limitate – proprio perché l’uomo stesso risponde sempre a desideri ed istinti (privati) -. L’equilibrio della società, quindi, così come quello che sta alla base delle stesse interazioni, si fonda su interessi ed intenti non legittimati e/o giustificati a priori da una lettura ed interpretazione razionale dei medesimi – proprio come affermato nei precedenti articoli, infatti, molto spesso gli esiti di un agire sono persino ignoti all’interessato -. La socialità, dunque, è un gioco di ruolo dove il ruolo è ricoperto dalla passione dell’uomo e non dalla razionalità o dalla riflessione. Trattandosi di interessi ed intenti privati, tutto quanto il sistema sociale si fonda su un gioco-forza tra “approvazione” e “disapprovazione” nei riguardi di quanto auspicato, desiderato e posto in essere.

La conseguenza di questa seconda forma di analisi, circa la nascita della morale e dell’organizzazione sociale, è tale da convincere il filosofo a negare quanto da lui stesso sostenuto durante la prima chiave di lettura di cui sopra. L’antirazionalismo, infatti, veicola, inevitabilmente, l’uomo verso la socialità e la formazione di canali e di rapporti interrelazionali con l’alter ego. Il paradosso (drammatico) di Mandeville risiede proprio in questo: il processo d’incivilimento, che porta l’uomo a non sapersi ergere al di sopra dei propri interessi, è lo stesso che permette la formazione di un contesto sociale, dato che solo all’interno di una realtà intrisa di legami interrelazionali è possibile soddisfare un proprio bisogno scambiando con gli altri cittadini beni o servizi. Decade in questo modo la necessità ad esistere dell’arte adulatoria dei politici, intesa come strumento per convincere gli individui a fuoriuscire dal proprio stato di natura.

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