Articolo correlato: ESIODO E IL PROBLEMA DEL VIVERE (IN)GIUSTAMENTE.
Articolo correlato: SOLONE E L’UNIVERSALITÀ DELLA GIUSTIZIA.
Articolo correlato: LA GIUSTIZIA COSMICA IN ERACLITO.
Protagora promuove una vera e propria distinzione tra conoscenza e sapere. La verità assoluta non esiste, dato che ognuno è “misura” delle proprie conoscenze. Si tratta del cosiddetto “uomo misura”. Non ha senso disquisire circa la verità o falsità di un concetto o di un contenuto di conoscenza. Questo, però, non impedisce di disquisire su gli stessi in un altro modo, ovvero mantenendoli tutti quanti legittimi e trattandoli e differenziandoli sulla base di altri parametri. Il sapere acquisisce, quindi, un vero e proprio significato di “praticità”.
La proposta di Protagora verte sulla distinzione tra “ciò che è vantaggioso e ciò che non lo è”. Questo è l’ambito che si apre al sapiente, ovvero lo spazio entro il quale il sofista è chiamato ad intervenire. Questo “sapere pratico”, infatti, diventa fondamentale nel momento in cui si passa dal piano individuale a quello collettivo, ovvero da quello delle attese e dei bisogni del singolo a quello concernente la res publica. Protagora, infatti, non negando in alcun modo la dinamica concettuale del già citato “uomo misura”, è consapevole di come ciascun cittadino creda e si faccia portatore di interessi, valori e bisogni differenti e distinti da quelli di un qualsiasi suo consociato. Ed è altrettanto consapevole di come, molto spesso, possano sorgere conflitti e diatribe tra cittadini, proprio a causa di una “molteplice divergenza”. Il compito del sofista è evitare che accadano tali avvenimenti.
Il sapere del sofista è, dunque, un sapere soprattutto – e principalmente – politico. Il significato di “uomo misura” muta inevitabilmente. Non si tratta più soltanto di disquisire circa il fatto che ciascuno di noi sia il detentore legittimo di una propria conoscenza, quanto il riflettere attorno alle conseguenze socio-politiche delle conoscenze possedute. Dove, adesso, il referente non è più soltanto il singolo, bensì la collettività… una collettività chiamata a fondarsi su di una coesistenza pacifica dei propri membri.
La concezione dell'”uomo misura” porta ad accettare l’idea che ciascuno di noi sia arbitro (anche) delle proprie decisioni politiche. Resta da capire, dunque, come, in assenza di valori oggettivi, assoluti e tali da far da guida ad una intera comunità, i cittadini stessi possano fondare la medesima e convivere nel rispetto di leggi comuni e condivise.
Come poter parlare, quindi, di “Giustizia”?
La soluzione fornitaci da Protagora risiede nel vertere la propria attenzione sull’uomo-politico e sulla concezione pratica del sapere. La Giustizia, insomma, al pari della verità, non è un valore assoluto ma (semplicemente) il risultato della collaborazione dei cittadini, ovvero la sintesi di quel complesso di regole e valori che gli stessi sono riusciti a rendere tra loro compatibili. Si tratta di una specie di “convenzionalismo giuridico”: giusto è ciò che la legge stabilisce e resta tale fintanto che la medesima lo afferma.
Non esiste, quindi, giustizia al di fuori della legge, dato che la legge è l’unica fonte di giustificazione della medesima. Ecco allora che ogni credenza circa l’esistenza di una Giustizia Divina viene completamente messa da parte.
Ricordati di votare l’articolo, se vuoi, utilizzando il tasto rate this all’inizio del post.