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Un’altra critica mossa da Tommaso nei riguardi della riflessione averroista, investe la teoria del filosofo arabo secondo la quale l’idea di un intelletto possibile “molteplice”, ovvero da considerarsi individuale per ciascun essere umano, ci obbligherebbe, per forza di cose, a considerare lo stesso materiale. In sintesi: se, restando fedeli alla interpretazione di Aristotele, sosteniamo che l’intelletto possibile non sia informato dalla materia – ovvero sia “non misto” -, allora esso stesso deve essere unico e non molteplice, perché, altrimenti, deve inevitabilmente sottostare alla moltiplicazione dei corpi e della materia medesima.
D’Aquino, però, ribatte alle argomentazioni di Averroè affermando che se qualche forma è fatta per essere “partecipata” da altro, di modo che di questo “altro” possa trovarsi in “atto”, essa stessa allora può essere individuata dalla materia e può moltiplicarsi in rapporto alla medesima. Questo non implica il fatto che l’intelletto sia da ritenersi materiale. Sintetizzando il tutto:
l’intelletto è potenza dell’anima che è atto del corpo
↓
in molti corpi abbiamo molte anime
↓
in molte anime risiedono molti intelletti
A tal riguardo, Tommaso si sofferma a riflettere attorno al concetto di “pensato” – ovvero, l’oggetto dell’intendere -. Se consideriamo il pensato come una specie immateriale presente nell’intelletto, allora dobbiamo abbandonare l’aristotelismo ed abbracciare le argomentazioni platoniche. Se, al contrario, per “pensato” intendiamo la natura e la quiddità della cosa lato sensu, allora dobbiamo “rivolgerci” alla immanenza aristotelica.
Finché l’essenza della particolarità resta nel sensibile, essa è pensata in “potenza”. È necessario che attraverso i sensi – ovvero attraverso una esperienza sensibile – il “fantasma” giunga all’intelletto agente, così da consentire allo stesso di astrarlo e di metterlo poi a disposizione dell’intelletto possibile. Soltanto così l’essenza può venire pensata in “atto”. È proprio attorno a tale dinamica che, nuovamente, Tommaso torna a focalizzare la propria attenzione!
Tutto ciò che si rapporta all’intelletto possibile non lo fa nelle vesti di ciò che viene pensato ma, al contrario, nelle vesti di ciò mediante il quale l’intelletto pensa. Come abbiamo già avuto modo di vedere, infatti, l’intelletto non è mai in “atto” prima dell’intendere ma – solo e soltanto! – quando pensa in “atto” l’intellegibile. È proprio questo “mediante” ad essere il succo dell’intero disquisire: il pensato è unico ma “mediante” qualcosa è pensato da ciascuno di noi in modo diverso, ovvero attraverso una specie differente di intellegibili. L’esempio che possiamo sfruttare è quella del maestro e dell’allievo: per entrambi, infatti, la scienza sulla “cosa saputa” resta la stessa pur non mostrandosi uguale nei riguardi degli intellegibili mediante i quali i due intendono.
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