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Abbiamo visto che l’applicazione al metodo del dubbio metodico porta Descartes ad accogliere come unica, certa ed aliena da qualsivoglia forma d’incertezza il principio del «cogito, ergo sum». Dobbiamo però, adesso, compiere un ulteriore passo filosofico. La “deriva” del “penso, dunque sono” è una sola nel pensiero cartesiano: il solipsismo. Ovvero la teoria secondo la quale nient’altro esiste all’infuori dell’essere pensante. Il «cogito, ergo sum», difatti, veicola il razionalista ad elaborare quella che si chiama res cogitans, ovvero la “sostanza pensante”, che, per l’appunto, pensa – e, dunque, esiste -, indipendentemente dai sensi e dalla loro capacità di percezione – perché, come abbiamo già avuto modo di constatare, i sensi sono ingannevoli per Descartes -. Se il “penso, dunque sono” è l’unica verità certa, allora esiste solo colui che pensa, cioè “io stesso” – altra ennesima testimonianza dell’applicazione del dubbio metodico alla deduzione logica -. La domanda, che dobbiamo porci a questo punto, è la seguente: “Descartes è un solipsista?”. Vediamo di argomentare con calma tutta quanta la riflessione in merito.
La domanda posta sopra, in realtà, non è “cartesianamente corretta”. Perché se volessimo vestire i panni del razionalista, dovremmo allora seguire il suo stesso metodo di ricerca epistemologica. Usufruire cioè del dubbio metodico per dedurre, con logica matematica, tutte le nozioni poste alla nostra attenzione. Infatti, per cercare di liberarsi dall’impasse del solipsismo, Descartes pone sé stesso al giudizio del metodo. Dall’applicazione ad personam del dubbio metodico cosa ne deduce il razionalista? Individua, innanzitutto, il concetto di “idea”, di cui ci fornisce una precisa classificazione:
- idee innate: ovvero tutte quelle idee prodotte dalla raison e da essa stessa colte nell’immediatezza del momento;
- idee avventizie: ovvero quelle che si originano nella mente grazie all’osservazione degli oggetti posti al di fuori della res cogitans;
- idee fittizie: sono le idee frutto dell’immaginazione o della combinazione di altre idee – su di esse Descartes poco o niente ci dice -.
Le idee innate non devono essere interpretate nel senso stretto del termine. Descartes non sosterrà mai che tutti possiedano idee innate; un bambino appena nato non ha idee, ad esempio. Sono quindi quelle intellettive, frutto, per l’appunto, dell’intelletto. D’altro canto, le idee avventizie, originandosi dalla percezione del Mondo esterno, assalgono la mente all’improvviso, formandosi in essa. Un esempio – molto banale – di idea avventizia può essere quella di un cane che noi elaboriamo mentalmente perché, magari, stiamo osservando, or ora, un cane attraversare la strada. Ma non è detto che le idee avventizie si riferiscano meccanicamente o automaticamente all’oggetto stesso che ha contribuito ad originare l’idea medesima: il Sole, ad esempio, potrebbe essere mentalmente pensato come un enorme Pianeta lontano o una piccola sfera nell’alto nel cielo.
Organizzate le le idee, il razionalista passa a classificare la realtà circostante:
- realtà oggettiva: è il contenuto strincto sensu dell’idea;
- realtà formale: è la trasposizione nella realtà concreta del contenuto dell’idea stessa.
La differenziazione è molto semplice da capire, in effetti. Sono, piuttosto, le implicazioni filosofiche che ne seguono ad essere un po’ più complesse. Ad esempio: la chimera si presenta come un’idea oggettiva ma non formale. Quindi, deduzione alla mano, la realtà formale è composta da idee oggettive ma non tutte le idee oggettive godono di realtà. Ora giunge quella dinamica che permette a Descartes di lasciarsi alle spalle il problema del solipsismo. Manteniamo, sempre, ferma la concentrazione sul metodo di deduzione logica.
Partiamo da un presupposto: il razionalista parla di “gradi di realtà”. E consideriamo, ad esempio, l’altezza. L’altezza altro non è, in termini cartesiani, che un’idea riferita ad un attributo (o proprietà) di un uomo. L’uomo, di per sé, è un’idea formale, ovviamente. Il paradigma logico è questo: la sostanza è più reale dell’attributo (o proprietà) perché – prendendo spunto dal nostro caso – l’idea di uomo è più formale dell’idea di altezza. Chiariamo ulteriormente: Descartes crede che una sostanza infinita possieda più realtà di una sostanza finita e che la sostanza lato sensu abbia più realtà dell’attributo (o proprietà) e che l’attributo (o proprietà) abbia più realtà del modo. Complicato? Sì lo è, ma possiamo sciogliere il tutto usufruendo proprio della logica meccanicistica – causa/effetto – illustrata dallo stesso razionalista. Teniamo a mente tutta questa concatenazione concettuale di cui sopra.
Descartes sostiene che ogni idea richieda, inevitabilmente, una causa per esistere. L’idea, dunque, ne è il mero effetto. Ora, se l’unica idea certa e sicura è la res cogitans, ovvero il “penso, dunque sono”, la deduzione logica ci porta a porci questo quesito: “Esiste una causa di me stesso?”. Lo snodo gnoseologico è tutto qui. Perché se il razionalista riesce a rispondere positivamente a questo quesito, può estraniarsi ipso facto dal solipsismo – perché, per l’appunto, deve allora esistere un qualcosa all’infuori dell’essere pensante -. Descartes sfrutta allora il “principio di causalità” (aristotelica). Questo principio – semplificando il tutto – sostiene che nulla nasce dal nulla e che causa ed effetto debbano possedere la stessa quantità di realtà. Deducendo nuovamente il tutto sul piano cartesiano: la causa di un’idea deve avere almeno tanta realtà formale quanta realtà oggettiva è posseduta dal contenuto dell’idea medesima. Riprendiamo allora l’esempio dell’altezza e vediamo se ora quella concatenazione logica risulti essere più chiara.
Abbiamo detto che l’altezza è un’idea oggettiva che descrive un attributo (o proprietà). Qual’è la sua causa? La mente umana, che per Descartes è una sostanza finita. Una sostanza possiede più realtà di un attributo. Esiste allora una sostanza infinita che abbia più realtà di me stesso – sostanza finita – e che possa fungere da causa della mia elaborazione mentale dell’idea oggettiva di altezza? Sì: Dio. Giriamo il ragionamento: può la mente umana produrre l’idea di Dio? Certamente, ma di quella idea non può esserne la causa perché la mente umana è sostanza finita e non può avere, di conseguenza, più realtà di quella posseduta da una sostanza infinita. Dio non ha causa. Ed il è punto zero da cui tutto proviene. Ecco risolto il problema del solipsismo, attraverso una dinamica trascendentale del tutto particolare. Dio diviene la legittimazione metafisica del metodo cartesiano.
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