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Il concetto di frame resta, sociologicamente parlando, più pertinente in Goffman che in Schütz. Sia da un punto di vista concettuale che prettamente terminologico, questa resta una premessa chiara e ferma.
Il tema dell’intersoggettività permette a Schütz di riassumere tutto il fulcro della sua riflessione sociologica attorno a tre dinamiche fondamentali:
- l’esistenza di diverse sfere di realtà – ovvero le «province finite di significato» -;
- la dialettica tra “senso della realtà” e “senso dell’identità” – inerente (anche) lo «stile cognitivo» -;
- i rapporti interrelazionali – cioè le riflessioni concernenti la intersoggettività strincto sensu e, quindi, la triade “esperienza-senso-significato” -.
Dopo aver parlato di «province finite di significato» e trattato il tema della «preminenza» della quotidianità, il sociologo austriaco sottolinea come tutti i “Mondi” alternativi – miti, sogni, racconti, giochi e via discorrendo – restino inevitabilmente accomunati attorno ad una legge ben precisa: “il sé che immagina non trasforma de facto la realtà a lui esterna” – cioè la realtà che, in quel preciso stato, gli si presenta dinanzi -. La logica di fondo che giustifica un tale assioma è facilmente intuibile, del resto: “saltare”, da una «provincia finita di significato» ad un’altra, implica, per forza di cose, una “diminuzione del grado di intensità del working” – o, per essere più precisi, una “diminuzione del grado di tensione di coscienza del working” -. In questo senso, il singolo individuo diviene sempre più “libero” da tutti i doveri e/o compiti e/o responsabilità legate al suo “lavorare”; il che, tradotto in altri termini, significa (anche) che non sarà più costretto – per l’appunto – a “piegare” il Mondo esterno per il perseguimento dei propri fini. Facciamo un esempio: se io ritenessi quell’oggetto laggiù in fondo essere un semplice albero, ma mi accorgessi poi in seguito, una volta avvicinatomi, trattarsi, al contrario, di un uomo fermo in piedi, lo shock di questa scoperta – “shock” nel senso di “frattura” tra ciò che penso e ciò che è – mi (ri)porterebbe su di un’altra «provincia finita di significato». Ma durante questo passaggio – dall’immaginario alla quotidianità -, non verrà posta in essere dal sottoscritto alcuna manipolazione (pragmatica) nei riguardi del Mondo esterno. È un po’ come la parabola del Don Chisciotte di Cervantes, dove il nobile cavaliere crede che i mulini a vento siano in realtà dei giganti. Ma con una differenza concettuale di non poco conto: Don Chisciotte, difatti, non subisce il sopracitato shock causato dall’esperienza e dalla scoperta del suo errore; in lui non vi è il “ritorno” alla provincia della quotidianità. Continua a vivere nella propria immaginazione e ad interrogarsi sul come sia stato possibile che i giganti si siano potuti trasformare in mulini a vento.
Il “senso della realtà” ed il “senso dell’identità” sono connessi, secondo l’ottica schütziana: gli elementi, che concorrono a formare la nostra “credenza” nella realtà quotidiana, plasmano, nello stesso tempo, la nostra stessa identità individuale. In questo modo, nonostante le molteplici e diverse realtà di riferimento, possiamo sviluppare, formare e mantenere una identità stabile che ci può permettere di orientarci all’interno della quotidianità medesima.
I quesiti adesso divengono, principalmente, due. Consideriamoli pure alla stregua di un “dualismo” tutto schütziano:
- “Come si passa dal senso della realtà a quello della quotidianità?”;
- “Come si passa dal senso della quotidianità a quello della realtà?”.
Vediamo, intanto, di rispondere al primo quesito e di lasciare il secondo, per il momento, irrisolto – lo affronterò nel prossimo post -.
Schütz sostiene che soltanto nella realtà preminente – quella quotidiana, dunque – ciascun soggetto (dato lo «stato di veglia») sia sempre in grado di percepire il suo sé stesso come armonizzato e “totalmente indivisibile”. Questa ontologica armonizzazione dell’essere è in perenne sintonia con i vissuti (esperienze) dell’individuo. Ed è solo e soltanto in questa provincia preminente che ciascuno di noi può cogliere l’alter ego. Si chiama dinamica di we-relation ed è legittimata dalle due tesi sull’idealizzazione, che avevamo già avuto modo di vedere, in seno all’intersoggettività, nell’articolo precedente. La we-relation schütziana richiede due parametri costituenti:
- una condivisione spazio-temporale tra i vari soggetti;
- la «epoché dell’atteggiamento naturale», ovvero la certezza sensibile che quanto si trova, adesso ed ora, all’infuori di noi non differisca sostanzialmente da come ci appare, adesso ed ora, ai nostri occhi.
La we-relation assume le sembianze di una dialettica sociale: le interazioni col prossimo permettono sia la costituzione della “pre-datità sociale” – processo di socializzazione – sia la sua stessa “ricostituzione comune” – intersoggettività” –. In sintesi, quindi: il passaggio dal “senso della realtà” – dove la realtà è quella preminente, ovvero quella col massimo «stato di veglia», ovvero la quotidianità – al “senso dell’identità” si traduce e si rispecchia de facto nella semplice condivisione del working. Esso genera il “senso d’identità” in (e di) ciascuno di noi.
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