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Torniamo a parlare nuovamente di “coscienza” all’interno della trattazione filosofica jamesiana. Ebbene, con questo termine non dobbiamo esclusivamente rivolgerci ad un’esperienza in cui domini una ed una sola soltanto modalità dell’essere (come, ad esempio, l’io psichico). Un dato (that), proprio a causa delle relazioni esistenti tra le esperienze ed i loro associati, può “entrare” in molti contesti. Anche in più contesti psichici, ovvero può essere (ovviamente) percepito da più menti – ci introduciamo all’intersoggettività –:
Questa penna ad esempio è di primo acchito un nudo dato [that], fatto, fenomeno, contenuto, o qualunque altro nome neutrale o ambiguo preferiate applicarle. Nell’articolo l’ho chiamata un’esperienza pura. Per venir classificata come una penna fisica o come un percetto di una penna, deve assumere una funzione, e questo può accadere solo in un mondo più complesso. Nella misura in cui in quel mondo è una caratteristica stabile, essa contiene inchiostro, traccia segni sulla carta e obbedisce alla guida della mano, è una penna fisica. Questo infatti è ciò che intendiamo per essere fisica in una penna. Nella misura cui, invece, è instabile, nel senso che va e viene con i movimenti dei miei occhi, e muta secondo quella che chiamo la mia immaginazione, è continua con le successive esperienze del suo essere stata […], è il percetto di una penna nella mia mente. Queste particolarità sono ciò che intendiamo con essere nella coscienza […] di una penna.
Una obiezione, che, magari, potrebbe anche venire mossa contro l’empirismo radicale di James, può rispecchiarsi nella seguente domanda: “Come può un termine divenire, nello stesso tempo, oggetto di due distinte relazioni?”. Affidiamoci, nuovamente, alle parole dello psicologo statunitense:
[…] si suppone che un fatto di coscienza esista solo una volta e che sia uno stato. Il suo esse è sentiri; esso è, solo nella misura in cui è sentito; ed è univocamente e inequivocabilmente esattamente ciò che è sentito. L’ipotesi che stiamo analizzando, però, lo obbliga ad essere sentito equivocamente, ora come parte della mia mente e poi ancora allo stesso tempo non come parte della mia mente, ma della vostra (infatti la mia mente non è la vostra), e questo sembra che sia impossibile senza che si duplichi in due cose distinte [… ].
Riformuliamo allora la domanda posta in precedenza: “Può una unità di esperienza pura entrare in due flussi di coscienza e figurarsi in due modi distinti, senza ridursi ad uno che sia, per entrambe, totalizzante?”.
Dobbiamo scindere la nostra indagine epistemologica in due fasi. Prima di tutto dobbiamo comprendere come una esperienza pura (dato/that) entri in un flusso di coscienza. Dopodiché, cercare di capire come la stessa possa divenire parte integrante di un secondo flusso di coscienza. In breve, quindi, si tratta, in primis, di definire il processo di “intellettualizzazione” tramite il quale un puro that viene decodificato, sia nel suo contenuto che nelle relazioni con le altre esperienze ed associati – ed è questo l’obiettivo dell’empirismo radicale; abbiamo avuto modo di sottolinearlo già più volte -, in secundis, di definire le basi dell’intersoggettività jamesiana.
Per quanto concerne il primo quesito, possiamo riprendere quanto è stato già esposto nel precedente articolo. Direi, dunque, di procedere subito spediti verso la risoluzione del secondo. Per farlo, partiamo col considerare il seguente passaggio:
[…] non c’è ancora niente di assurdo nella nozione del suo essere sentita in due modi differenti allo stesso tempo, ossia, come vostra e come mia. Certamente, è mia solo in quanto è sentita come mia, ed è vostra solo in quanto è sentita come vostra. Ma in nessuno dei due casi è sentita come in se stessa, ma solo quando è appropriata dalle nostre due rispettive esperienze mnemoniche […].
Secondo James la contraddizione è solo illusoria; tutto ruota attorno al concetto di “appropriazione” e può essere spiegato in modo logico. Come abbiamo detto, il mero dato (that) è esperienza pura; ma, proprio in quanto tale, semplicemente “è” e non può essere “conosciuto in sé stesso”, nell’immediatezza dell’attimo percettivo. Perché non è intellettualizzato. Per averne conoscenza, è necessario questo passaggio epistemologico, che altro non è che un’appropriazione dello stesso contenuto dell’esperienza da parte del conoscente – il knower -. Il fatto stesso, quindi, che un oggetto sensibile entri nel flusso di coscienza di più percipienti non implica nessuna problematica, né, tanto meno, alcuna impasse filosofica.
Il fatto che la realtà venga vista come una specie di “reticolo intersoggettivo” di esperienze, ci permette quasi di approdare ad un vero e proprio “realismo estremo”: l’esperienza, difatti, verte sempre su un qualcosa che è reale e, di conseguenza, quel qualcosa si “offre a conoscere” a più menti individuali, permettendo così che, sul medesimo oggetto, si esperiscano più esperienze stesse. Tutto ciò che, al contrario, viene immaginato, resta segregato nella mente del percipiente come privato ed indivisibile.
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