DIREZIONE E CREDENZA IN JAMES: UNA PRECISAZIONE.


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Arrivati a questo punto della trattazione, facciamo un piccolo passo indietro. Riprendiamo in considerazione l’esempio delle tigri dell’India. Un esempio che avevamo affrontato qualche articolo prima. Perché, adesso, possiamo approfondire analiticamente la filosofia jamesiana, sotto molteplici punti di vista.

Avviamo la nostra discussione – si tenga a mente quanto già esposto, in riferimento proprio all’esempio di cui sopra – partendo da questo assioma concettuale, riconducibile all’empirismo di James: “conoscere non è solo avere idee adeguate, ma anche dirigersi nella giusta direzione”. Perché, come abbiamo già visto, il concetto di “direzione” è particolarmente rilevante nelle trattazioni jamesiane.

Il concetto di “intenzionalità”, per il filosofo americano, implica sempre, in poche parole, che il pensiero lato sensu debba approdare – essere, per l’appunto, diretto – all’oggetto pensato. Si tratta di una intenzionalità profondamente “pratica”, dunque. Pensare alle tigri indiane, standosene seduti, ad esempio, in una camera locata dall’altra parte del Mondo, significa che, tra rappresentazione e presentazione del dato sensibile, si venga ad instaurare un particolare tipo di rapporto bilaterale: la rappresentazione “assume l’assenza permanente del that” (le tigri), mentre la presentazione considera il medesimo come “sempre presente” (anche nel caso in cui non lo sia). Tutto ruota attorno ad una teoria della sostituzione. Tutto è reso possibile dal possesso, da parte del knower, di una particolare “credenza” (belief). Messo da parte (ovviamente) il caso dell’esperienza diretta, la “credenza jamesiana” fa sì che la “tigre che non è presente” sia assolutamente concepita come reale; il tutto per valorizzare quei “meccanismi di movimento” che possono poi permettere di esperirla. Ma, sorge una impasse, a tal riguardo.

“La tigre che in questo momento non è presente” può essere reale solo su di un piano psicologico (belief). Per il semplice fatto che “io credo che esista, per davvero, nella lontana India”. Ma non, quindi, su di uno più spiccatamente (e concretamente) epistemologico. Dunque, l’esistenza che le attribuiamo deve essere di natura, per lo più, ipotetica. È proprio in riferimento a questa dinamica che James ribalta l’impianto dell’epistemologia empirica di Berkeley. L’esse est percipi diviene un vero e proprio esse est percipi posse. La tigre finisce praticamente col divenire, per qualsiasi conoscente, come una “permanente virtualità di sensazioni”. In poche parole: essa è reale perché virtualmente reale. Quindi esiste o sulla base di una precedente esperienza diretta (“ho visto le tigri in India e, perciò, so che esistono”) o per mezzo della concezione stessa che il knower possiede e sviluppa del Mondo sensibile medesimo (“so che esistono le tigri in India”). Quindi la tigre esiste o perché di essa ne custodisco un’esperienza diretta o perché è la stessa esperienza intellettiva, che possiedo sul Mondo, che mi porta a ritenerne vera l’esistenza. In ogni caso, si tratta di evidenziare quel dinamico intreccio di relazioni esistenti tra le esperienze ed i loro associati; “dinamico”, per l’appunto, perché è proprio il dato sensibile ad impormi di muovermi nella sua stessa direzione, se desidero esperirlo. Ma approfondiamo ulteriormente tutta quanta l’argomentazione.

Se la conoscenza di un oggetto assente ma pensato (come il caso delle tigri di cui sopra) fosse anche incompleta o imperfetta, resterebbe pur sempre “una conoscenza in divenire”. Non si indirizza il pensiero verso un dato non reale, ma, piuttosto, si indirizza lo stesso verso un dato non percepito. Pensiero ed esistenza sono convertibili, dunque. Ciò che li separa non possiede niente di ontologico. Ma, tutt’al più, di meramente spaziale.

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