LE ESPERIENZE AFFETTIVE SECONDO JAMES.


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L’empirismo radicale di James si fonda su due premesse. È “empirico” perché, nel pieno rispetto della tradizione empirista, valuta come dotate di maggiore certezza e veridicità le conclusioni formulate sui dati di fatto, ma con la consapevolezza che suddette conclusioni possano anche modificarsi a seguito di nuove esperienze future. Ed è “radicale” perché, a differenza delle correnti empiriche contemporanee – tipo il positivismo -, ripudia l’idea di un “monismo dogmatico” nei riguardi del quale tutta l’esperienza debba poi, inevitabilmente e necessariamente, “allinearsi”. Il ripudio dei sistemi monisti, del resto, abbiamo già avuto modo di constatarlo.

Concentriamoci adesso sui vissuti psichici e cerchiamo di comprendere come l’empirismo radicale si ponga nei riguardi delle sensazioni e delle emozioni. James sostiene che «il punto centrale della teoria dell’esperienza pura è che esterno ed interno sono nomi per due gruppi nei quali suddividiamo le esperienze a seconda del modo in cui queste agiscono sui loro vicini.» Facciamo un esempio.

Prendiamo in considerazione l’aggettivo “duro”. E cerchiamo di coglierlo in entrambi i contesti. In quello esterno, “duro” può voler dire forte, energico, aggressivo e/o capace di intervenire sullo spazio occupato dai “vicini”. In breve: ci troviamo a concordare circa una concezione di “durezza fisica”. Nel contesto interno, invece, questa durezza non intacca niente. E non occupa alcuno spazio. Nella mente, dunque, resta una semplice idea. O, per essere più precisi, una sensazione (per l’appunto). Comprendiamo allora come i due contesti, di cui sopra, differiscano in un ambito del tutto interrelazionale: esternamente l’aggettivo “duro” si rispecchia in una impenetrabilità (fisica) per i suoi stessi “vicini”; al contrario, internamente, possiamo notare una tangibile e concreta incapacità di interferire fisicamente con gli stessi. Ma attenzione: la non interferenza fisica non significa assenza di relazione. Tutt’altro:

È con l’interesse e l’importanza che le esperienze hanno per noi, con le emozioni che suscitano, in breve, con il loro valore affettivo, che si regola principalmente il loro susseguirsi nei nostri diversi flussi di coscienza come nostri pensieri. Il desiderio li introduce; l’interesse gli afferra; l’adeguatezza fissa il loro ordine e connessione.

Ovviamente, però, l’universo nel quale viviamo non si riduce ad una mera classificazione del tipo “dentro/fuori”. Le esperienze affettive (psichiche), come le emozioni, ad esempio, possono certamente essere rivolte verso ambedue i contesti – nel “rispetto” del dualismo jamesiano -, ma possono dare vita anche a gruppi ibridi e/o ambigui, a causa proprio del tipo di classificazione che ciascun percipiente genera – oggettivamente e soggettivamente – nei riguardi dell’esperienza vissuta. Su cosa si legittimano queste classificazioni?

James – da pragmatico – sostiene che le classificazioni dipendano dagli scopi fissati dal percipiente, nel momento esatto dell’attimo percettivo: «per certi scopi è appropriato prendere le cose in un certo gruppo di relazioni, per altri scopi in un altro gruppo.» Quindi, emozioni come la rabbia o l’amore o il dolore et similia, non sono percetti esclusivamente mentali – difatti, il dualismo jamesiano già ce lo aveva fatto ben comprendere -:

Tutti i nostri dolori, peraltro, sono localizzati, e siamo sempre liberi di parlarne tanto in termini oggettivi quanto in termini soggettivi. Possiamo dire che siamo coscienti di un punto dolente, dotato di una certa estensione nel nostro organismo, oppure possiamo dire che siamo internamente in uno stato di sofferenza.

Evitiamo però di cadere in un grossolano errore. Un’esperienza affettiva, esattamente come ogni altra esperienza colta “in sé”, resta pur sempre un’esperienza pura. Non è dotata, aprioristicamente, di classificazioni. Perché non intellettualizzata. La oggettività e la soggettività della stessa si originano solo successivamente, a seguito degli intenti e degli scopi pragmatici/funzionali fissati dal percipiente. In breve, la potremmo considerare, ontologicamente parlando, come “equivoca” nel suo stato di natura, proprio perché priva di catalogazione. Non solo il pragmatismo ci permette di organizzarla, ma, addirittura, ci può indirizzare verso una più intensa agnizione della stessa, qualora sorgessero finalità o interessi ulteriori. E prestiamo di nuovo attenzione! Questo pragmatismo, questo scopo funzionale non si traduce solo in un interesse meramente tangibile: può essere anche intellettuale, ad esempio:

Non esiste dunque spiritualità o materialità originaria dell’essere, distinte intuitivamente, ma solo una traslazione di esperienze da un mondo a un altro; un loro accorpamento con un gruppo o con un altro di associati per fini specificatamente pratici o intellettuali.

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