LA CAUSALITÀ ARISTOTELICA E L’ATTO DI POTENZA: PARTE PRIMA.


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Sono tra i concetti più profondi ed importanti dell’intero sistema filosofico aristotelico. Come mai fino ad ora, risulta essere necessario, dunque, procedere con calma, ordine e linearità. Per prima cosa, è doveroso comprendere la posizione assunta da Aristotele nei riguardi della Fisica. Il filosofo deve guardarsi, infatti, tanto dai naturalisti pre-socratici quanto dalle argomentazioni platoniche. Contro il platonismo e a favore, quindi, dei suddetti naturalisti, Aristotele recupera l’innovazione della individuazione e trattazione degli “elementi primi” della Natura; contro gli stessi, appoggiando stavolta l’epistemologia di riferimento platonico, Aristotele sottolinea la necessità di organizzare la conoscenza dei medesimi in forme concettuali rigide e ben definite – ma aliene, ad ogni modo, da qualsivoglia riferimento ad un Mondo eidetico -.

La prima caratteristica che definisce gli enti in quanto tali – ovvero, in virtù della loro stessa natura – è la materia. O, per essere più precisi: gli enti vanno costituendosi di una “componente materiale”. Conseguentemente, gli stessi sono soggetti a due dinamiche naturali: la gènesis – il vero e proprio “processo di generazione” – ed il kìnesis – ovvero il “mutamento spazio-temporale” -. Queste due dinamiche distinguono tali enti da quelli immobili ed eterni (in quanto immateriali) – è il caso degli oggetti delle scienze matematiche e teologiche -. La seconda fondamentale caratteristica, che distingue gli enti materiali, è che essi stessi possiedono all’interno della propria natura il principio che sta alla base del loro mutamento – il quale, quindi, è tanto intrinseco quanto implicito nella loro stessa essenza ontologia -. In questo modo, Aristotele distingue questi enti da quelli artificiali i quali, pur essendo materiali, ricevono tanto l’esistenza – gènesis – quanto il movimento – kìnesis – dall’esterno. Sarebbe interessante compiere una comparazione filosofica nei riguardi del concetto di “causa di sé”, ma non è questo il luogo adatto per farlo.

Il movimento ed il mutamento sono soggetti a precise regole che fanno sì che gli enti stessi si presentino ordinati all’interno della Natura. Il tutto sta poi a cercare di comprendere tale forma di conoscenza – da qui la necessità di dotarsi del sapere teorico più adatto ed opportuno -. Innanzitutto, sostiene Aristotele, l’immanenza dello stato delle cose naturali già permette di cogliere la prima caratteristica di tale ordine: la “regolarità”. Movimento e mutamento sono processi, infatti, regolari, ovvero sono tali da ripetersi in modo costante. La regolarità non significa che non possono esserci “deviazioni” e/o “margini teorici di errore” quanto, piuttosto, il fatto che il modo di mostrarsi della Natura permette che queste proprietà possano essere sempre individuate, catalogate e regolarizzate attraverso la elaborazione di enunciati stabili ed universali. Facciamo un esempio banale: possiamo dire che ogni neonato abbia dieci dita in quanto la regolarità della Natura fa sì che questo sì verifichi quasi sempre, ma potrebbero anche nascere bambini con delle menomazioni alle mani tali da rappresentare una eccezione. Ecco perché «ciò che è secondo natura è nel tutto o nel per lo più».

L’intera epistemologia aristotelica si fonda sulla necessità della individuazione dei principi e delle cause che legittimano lo stato delle cose. Il percorso indicatoci da Aristotele è alquanto lineare: occorre partire da ciò che «è più noto e più sicuro per noi» per poter così giungere a ciò che «è più noto e più sicuro per natura». È una naturale conseguenza dell’immanentismo aristotelico. Dobbiamo guardare la Natura. Osservarla. Scrutarla. Avviare da queste banali azioni qualsivoglia intento di indagine analitica ed intellettiva. Questo perché la Natura stessa «se osservata, basta da sola a dissipare gli errori». Volgendo poi l’attenzione all’eleatismo – pensiero filosofico secondo cui al Mondo sensibile, molteplice e mutevole, fa eco il Mondo intellegibile, necessario, eterno ed accessibile solo per mezzo della ragione -, Aristotele recupera un altro principio particolarmente utile e rilevante per le sue stesse argomentazioni: la riflessione sui “contrari”. I principi, che legittimano i processi naturali, consistono nei contrari. Tale assunzione, da una parte, finisce con il diventare ciò che attivamente smuove e dà linfa ai processi naturali medesimi – movimento e mutamento – e, dall’altra parte, pone in essere una struttura portante, comunemente condivisa, in grado di far comprendere gli stessi processi di cui sopra. Ma attenzione.

Il mutamento – inteso come passaggio, movimento et similia – non si esaurisce ipso facto nell’essenza dei contrari. Quest’ultimi, infatti, permettono la transizione da un polo ad un altro polo. Come, ad esempio, dall’essere al non essere. Ma è indubbio che niente possa nascere dal non essere. In breve, secondo Aristotele, una struttura bipolare come quella sopra descritta è riduttiva ed errata. Risulta necessario inserire un referente all’intero processo. Invece di dire, ad esempio, “un non colto diviene colto” è doveroso affermare “un uomo non colto diviene colto” dove al non colto – privazione – e al diviene colto – forma predicativa – si riferisce un uomo – sostrato -. In poche parole, in questo caso, il mutamento si rispecchia nel passaggio da una privazione – l’uomo prima era ignorante – all’acquisizione di quella forma prima mancante – ora, invece, l’uomo è acculturato -, dove alla fine la “contrarietà” tra i due poli – colto/non colto – si palesa ben chiara e definita. Ma occorre nuovamente prestare attenzione. Vi è, difatti, un concetto aristotelico in grado di alienarsi dalla “procedura di acquisizione formale a vantaggio di un sostrato” secondo la modalità di cui sopra. Aristotele parla, infatti, di «generazione assoluta». Si tratta, molto semplicemente, del “venire ad essere di una sostanza”. Facciamo un altro esempio: un uomo non nasce dal nulla ma, bensì, diviene tale grazie ad un seme spermatico che lo pre-esiste; lo stesso seme, al termine del processo embrionale, assume la forma di uomo. L’intuizione aristotelica è tutta qui: i tre principi di cui sopra (privazione, forma e sostrato) godono di una valenza soprattutto “posizionale” e non “sostanziale”. Qualsiasi particolarità può occupare il “posto” del sostrato – il seme che diventa uomo – proprio come qualsiasi determinazione formale può occupare il posto della forma e della relativa privazione. Il sostrato è hyle nel pensiero aristotelico – potremmo veramente tradurre il termine greco come “materia da costruzione” -, ma non si tratta di un qualcosa di primo e/o univoco. In questo Aristotele critica i platonici, ovvero nel non aver saputo distinguere il sostrato dalla privazione, il che rende loro necessario tornare al passaggio binario non essere-essere. È il concetto di “analogia” che risulta essere profondamente rilevante, a questo punto della trattazione:

La natura soggiacente è conoscibile per analogia. Come il bronzo sta alla statua, o il legno al letto, o la materia o ciò che è privo di forma, prima di assumerla, stanno a ciò che possiede una forma, così essa sta alla sostanza, cioè all’individuo determinato e a ciò che è. Essa è dunque un principio, senza essere una né un ente nel senso dell’individuo determinato.

Il fatto che i processi naturali di mutamento si fondino su di una struttura nella quale i principi costituenti sono “valorizzati” in modo posizionale, permette di parlare teoricamente della struttura stessa in modo unificato – cioè, come abbiamo visto ad inizio articolo, tramite enunciati stabili ed universali -, ma a patto che si comprenda come si tratti di una unificazione non sostanziale ma, per l’appunto, analogica.

Per il momento è opportuno fermarsi qui.

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