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A questo punto del dialogo, Socrate smette di parlare e si rivolge nuovamente a Simmia e Cebete, chiedendo ad entrambi se siano d’accordo o meno su quanto trattato ed esposto fino a questo momento. Ecco allora che i due compagni rivolgono al filosofo due critiche particolarmente profonde – soprattutto quella di Cebete – e tali da obbligare lo stesso Socrate a prendere nuovamente la parola – per non lasciarla poi più -. In questo articolo ci limiteremo a descrivere le due suddette critiche. La loro analisi più approfondita e le controrepliche socratiche verranno trattate nei due articoli successivi.
Innanzitutto, dobbiamo prestare attenzione ad una premessa particolarmente rilevante in seno a quanto esposto dai due amici di Socrate: le loro critiche, infatti, pur essendo strutturalmente simili, in quanto fondate su ragionamenti metaforici ed allegorici, vertono su argomentazioni diverse. Simmia, dal canto suo, si dice essere in accordo con quanto sostenuto fino ad ora da Socrate, ma non accetta il fatto che l’anima assomigli alle idee e che, quindi, essa – in quanto divina – guidi il corpo verso la conoscenza. Cebete, al contrario, si palesa essere molto più drastico nella sua critica: di quanto esposto accetta solo il ragionamento inerente la pre-esistenza dell’anima rispetto al corpo, mentre è in completo disaccordo su tutto il resto, in quanto ritiene – giustamente! – che Socrate ancora non sia riuscito a dimostrare, correttamente ed in modo esaustivo, l’indistruttibilità dell’anima. Iniziamo, intanto, con l’analizzare quanto sostenuto da Simmia.
Simmia invita Socrate ad accettare la seguente metafora: l’anima è divina rispetto al corpo esattamente come l’armonia musicale, prodotta dalle corde di un liuto, è divina rispetto allo strumento medesimo. Se però l’anima è divina, niente di ciò che accade al corpo dovrebbe intaccare questa sua essenza ontologica. Ma se ponessimo, ad esempio, il caso che il liuto cada e si spezzi, l’armonia finirebbe con il rovinarsi. In pratica, quindi: le affezioni che possono capitare al corpo – come, ad esempio, una malattia – possono tranquillamente inquinare ciò che l’anima è per sua stessa natura. Simmia, quindi, cerca di far intendere come l’anima possa anche essere l’elemento divino dell’unione tra sé medesima ed il corpo ma, affinché ciò avvenga, è anche necessario che il corpo sia in uno stato di assoluta perfezione. Ad un’attenta analisi, però, è possibile notare una forzatura nel ragionamento esposto da Simmia. Una forzatura che, in riferimento a due aspetti, fa apparire la replica stessa, per l’appunto, “forzata” – del resto, come vedremo, Socrate non farà molta fatica a controreplicarla -. Paragonare l’anima alla melodia armoniosa emessa dal liuto è un azzardo. Per due motivi. In primis, Socrate ha ben affermato come l’anima non sia composta di parti e questo non è sicuramente il caso di una melodia musicale – dato che la medesima va componendosi di note -. In secundis, l’anima non è il prodotto del corpo, mentre, invece, la melodia si origina – necessariamente! – dalle corde che compongono il liuto. Si tratta però di una critica sicuramente interessante, anche perché ci permette di cogliere ulteriormente la concezione di anima fatta propria da Socrate. Il filosofo, infatti, non afferma che il corpo non possa inquinare l’anima. Abbiamo già avuto modo di constatarlo in riferimento all’etica e alle argomentazioni circa la reincarnazione. Ciò che però il corpo non può fare è viziare quello che l’anima ontologicamente è. L’anima è divina per sua stessa natura. Il corpo può porre nei suoi riguardi affezioni ed ingerenze ma solo nel senso di renderle arduo il compito di elevare l’uomo alla conoscenza. Passiamo ora all’osservazione (brillante) di Cebete.
La metafora utilizzata da Cebete è quella del tessitore di vestiti. Immaginiamo di prendere in considerazione un uomo che, per l’intero arco della sua vita, abbia sempre tessuto vestiti. Quando muore, egli indossa l’ultimo vestito che ha tessuto. Ebbene, sostiene Cebete, consideriamo questo indumento come se fosse la sua anima. Cebete ripete di essere d’accordo con Socrate circa la pre-esistenza dell’anima al corpo e l’immortalità della stessa. Infatti, metaforicamente parlando, il corpo si rovinerà prima del vestito indossato dal defunto. Quello che però non convince Cebete è il fatto che l’anima sia eterna ed indistruttibile. Infatti, anche questo indumento, prima o poi, finirà con il dissolversi. In pratica, ciò che va sostenendo l’amico è che anche l’anima, dopo un tot numero di reincarnazioni – metaforicamente rappresentate da tutti i vestiti tessuti ed indossati dal tessitore stesso -, finirà, inevitabilmente, con l’usurarsi e con il dissolversi. Socrate, quindi, deve spiegare perché l’immortalità dell’anima debba intendersi nel suo significato di eterna indistruttibilità. Senza contare il fatto che l’osservazione di Cebete pare voglia persino negare le argomentazioni, trattate dal maestro, circa le reincarnazioni: i vestiti, infatti, hanno sempre avvolto il corpo del tessitore… l’anima, dunque, per Cebete può sicuramente riunirsi al corpo – sempre per un numero definito di volte – ma, solo e soltanto, nei riguardi di quello stesso specifico ed identico corpo! Si tratta di un critica geniale e profonda e che obbligherà Socrate a dare vita ad un’ampia riflessione in seno al principio di causalità.
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