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«[…] l’esistenza di un’idea consiste nell’essere percepita.» Questo è l’esse est percipi di Berkeley. Ogni cosa per essere reale deve essere percepita. I pensieri, le passioni e le idee formate dall’immaginazione non possono esistere al di fuori della mente. E lo stesso vale per tutte le idee impresse nei sensi. Riflettiamo, per un attimo, attorno al significato del verbo “esistere”. Se mi trovo seduto vicino ad un tavolo, posso tranquillamente sostenere che il tavolo esista, dato che posso vederlo con i miei stessi occhi. Qualora uscissi dalla stanza, potrei continuare a ritenere legittima la sua esistenza perché l’idea nella mente impressa dai sensi perdurerebbe – “l’ho appena visto, so che esiste” -. Ma questo a patto che vi sia la percezione del medesimo.
Berkeley sottolinea come ciascun individuo debba «[…] cercare di separare nei suoi pensieri l’essere di una cosa sensibile dal suo essere percepita». Consideriamo alcune idee percepite dai sensi, come l’odore o un colore in particolare, ad esempio. Per un’idea esistere in un qualcosa privo di capacità percettiva è una idiosincrasia concettuale perché – «esse est percipi» – possedere un’idea significa percepirla. Quindi, ciò, in cui esiste l’idea di un colore, deve essere anche in grado di percepirlo. E, quindi, queste idee non possono esistere se non all’interno della mente dell’uomo. L’unica sostanza pensante è, dunque, ciò che il filosofo inglese indica con il termine di “spirito”. Questo è il primo tassello gnoseologico che permette a Berkeley d’introdurre l’idea di Dio – e, dunque, la metafisica – nel proprio empirismo – idealistico ed immaterialistico -.
L’immaterialismo di Berkeley si fonda su un’obiezione che il filosofo inglese muove contro i filosofi materialisti. Alcuni di essi, infatti, sono soliti distinguere le qualità di un oggetto sensibile in “primarie” e “secondarie”. Le qualità primarie sono l’estensione, il movimento, la distanza, ecc. Le secondarie, invece, sono l’odore, il colore, il gusto e via discorrendo. Mentre le qualità secondarie non sono riconducibili a nessuna res cogitans, quelle primarie vengono, generalmente, indirizzate sotto il termine “materia”. Il fatto è che nell’idealismo berkelyano anche le idee come l’estensione ed il movimento esistono solo e soltanto all’interno della mente. Quindi, anch’esse devono trovarsi all’interno di un qualcosa dotato di capacità percettiva e che sia in grado di percepirle – perché «l’esistenza di un’idea consiste nell’essere percepita», appunto -. La nozione di “materia” è, quindi, fallace. Inoltre le qualità primarie sono in relazione a quelle secondarie; anzi, sono da esse stesse influenzate.
Filosoficamente parlando, poniamoci la seguente domanda: “Esistono al di fuori della mente oggetti sensibili non percepiti ma la cui esistenza possa considerarsi avvalorata solo e soltanto per mezzo delle idee possedute nella mente degli uomini?”. In breve: “io non percepisco ora l’albero ma so che l’albero esiste”. Si tratta di fare una distinzione tra percezione ed immaginazione. Una distinzione concettualmente molto rilevante all’interno dell’empirismo berkelyano. Ognuno di noi può immaginare un albero. Il fatto, sostiene Berkeley, è che dovremmo poi porci un quesito epistemologico: “Qualcuno sta percependo quell’albero?”. Perché se l’idea deve essere sempre percepita, affinché essa non resti mera immaginazione, deve poter poi contare di un empirico riscontro sensibile. Quindi, in termini propriamente aprioristici, il formulare un’idea non significa mai che essa esista al di fuori della mente.
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