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L’appendice finale del progetto kantiano sulla pace perpetua tra gli Stati si costituisce di due argomentazioni. Sono entrambe particolarmente interessanti e rilevanti per l’intera filosofia di Kant, perché focalizzano la propria attenzione su due tematiche fondamentali per l’illuminista: il rapporto tra morale e politica, e la trascendentalità del diritto (pubblico). Analizziamo il tutto con ordine, affrontando, intanto, la prima argomentazione:
- «Sulla discordanza tra la morale e la politica, nella prospettiva della pace perpetua.» Kant evidenzia come il precetto portante della politica risponda ad una formula del tipo “siate furbi come serpenti”, mentre quello che sta alla base della morale possa essere riassunto in “siate semplici come colombe”. L’illuminista afferma come la politica entrerebbe, inevitabilmente, in conflitto con la morale, nel caso in cui queste due massime, di cui sopra, dovessero coesistere in un unico comando. La lettura di Kant è tanto pragmatica quanto – oserei dire – idealistica: del detto “l’onestà è la migliore politica” il filosofo evidenzia le numerose (ed umane) pecche ed incongruenze che il “politicare” stesso pone in essere abitualmente; d’altro canto, il principio “l’onestà è migliore di ogni politica” resta per l’illuminista «la condizione incontrovertibile della politica.» La riflessione kantiana diventa particolarmente interessante riguardo alla distinzione tra “politico morale” e “moralista politico”. Il fatto è che, secondo Kant, politica e morale devono sempre cercare di coesistere reciprocamente: il “politico morale” è colui che si mostra essere “prudente politicamente” perché attento a fare in modo che la politica stessa non leda i precetti morali; il “moralista politico”, invece, manipola e plasma i contenuti etici e morali per giustificare intenti e manovre politiche. Inutile dire che Kant esalti la figura del politico morale ed osteggi quella del moralista politico: «Il politico morale avrà come principio che, quando nella costituzione statale o nei rapporti fra Stati vengano compiuti errori che non si sono potuti evitare, sia un dovere, soprattutto per i capi dello Stato, preoccuparsi di come tale costituzione possa essere più presto possibile migliorata e come possa essere resa conforme al diritto naturale […].» Si tratta di un passaggio molto delicato in effetti. Kant afferma che, quando uno Stato non sia ancora pronto per organizzarsi in una repubblica, la prudenza politica – che coesiste con la morale (da qui la fisionomia del politico morale, per l’appunto) per il perseguimento della pace perpetua tra gli Stati – deve “suggerire” al politico (governante o Capo dello Stato) di non procedere con irruenza o avventatezza, al fine di sostituire, nel minor tempo possibile, l’apparato istituzionale del Paese. Ciò che è fondamentale, invece, è che «una tale trasformazione sia profondamente sentita dal detentore del potere, così da rimanere in costante avvicinamento al fine (l’ottima costituzione secondo le leggi del diritto) […].» In sintesi, Kant va sostenendo che: «Uno Stato può già governarsi in modo repubblicano anche quando la sua carta costituzionale è ancora basata su un potere di comando dispotico: sino a che, gradualmente, il popolo sarà capace di sentire l’influsso della semplice idea dell’autorità della legge […] e quindi verrà trovato in grado di dare la propria legislazione […].» La riflessione formulata sulla “prudenza politica” verte anche sui rapporti internazionali, secondo Kant: se uno Stato, ad esempio, dovesse correre il rischio di venire conquistato da un altro Stato, anche qualora la sua costituzione fosse dispotica – o, ad ogni modo, non repubblicana -, non sarebbe auspicabile, per la sua stessa sopravvivenza, un cambiamento repentino del proprio impianto istituzionale. I moralisti politici, invece, non trattano la morale se non per asservirla, come fonte di giustificazione, alle proprie manovre e decisioni politiche. La “prudenza” non appartiene loro, anzi, «mascherando i principi statali contrari al diritto col pretesto di una natura umana incapace del bene che la ragione le prescrive, rendono impossibile il progresso, per quanto sta in loro potere, e perpetuano la violazione del diritto.» In pratica, ledono la trascendentalità del diritto stesso e negano il progresso della ragione umana, mistificandolo. Sono tre le pratiche che, stando all’argomentazione presentataci da Kant, permettono al moralista politico di inficiare tanto la morale quanto la politica di uno Stato (e di un popolo): 1) fac et excusa: si tratta dell’attitudine ad approfittarsi del cosiddetto bonus eventus, ovvero lo sfruttare una particolare situazione per porre in essere forme di comando e/o di possesso i cui contenuti, considerando la situazione stessa, si ritiene potranno essere più facilmente compresi e/o perdonati dalla popolazione, in un secondo momento; 2) si fecisti, nega: semplicemente il negare quanto compiuto, sfruttando la propria posizione politica ed i poteri da essa stessa concessa; 3) divide et impera: ovvero, dividere il più possibile la società, di modo da rendere più governabili e controllabili i vari agenti ed attori sociali, o il promuovere, in ambito internazionale, divisioni tra vari Paesi, sempre per il medesimo fine. In termini di “ragion pratica”, Kant approfondisce ulteriormente la questione, ponendo la seguente domanda: “La ragion pratica trae il proprio fondamento dal suo “principio materiale” – ovvero il “fine” inteso come l’oggetto della decisione presa – o dal suo “principio formale” – ovvero il principio secondo il quale l’uomo agisce on l’intento di rendere la propria massima una legge universale -? Kant sostiene che il principio formale anticipi quello materiale: il principio formale possiede una «necessità incondizionata», mentre quello materiale diviene «obbligante solo presupponendo le condizioni empiriche, ossia le condizioni esplicative, del fine che è stato prefissato […].» Per il conseguimento della pace perpetua tra gli Stati, Kant afferma come il problema del moralista politico sia di natura tecnica, mentre quello del politico morale, per lo più, di tipo morale (per l’appunto). In breve: l’attuazione della pace perpetua può essere un problema per il moralista politico perché la stessa è ritenuta essere da quest’ultimo un mero oggetto fisico, mentre per il moralista politico si tratta anche di un vero e proprio dovere. Il problema del moralista politico è, dunque, un problema di “prudenza” – di cui, infatti, è privo, come abbiamo potuto constatare a più riprese – ed investe tutte e tre le forme del diritto (dello Stato, del popolo ed internazionale), come visto poc’anzi. Il politico morale soffre, invece, di un problema di “saggezza” che però, sostiene l’illuminista, è un problema che tende ad auto-risolversi da solo, a patto che la prudenza convinca sempre il politico a non agire «frettolosamente, con violenza, ma di avvicinarsi ad esso in modo costante, secondo il presentarsi di circostanze favorevoli.» Il conflitto tra morale e politica – anche nell’ambito del perseguimento della pace perpetua – è solamente soggettivo mai oggettivo: dipende da quella che Kant chiama «dipendenza egoistica degli uomini». Ma si tratta, ad ogni modo, di un conflitto quasi “terapeutico” per l’uomo stesso:
[…] è bene che resti sempre, poiché serve per rendere affilata la virtù, il cui vero coraggio[…], nel caso presente, non consiste tanto nell’affrontare con fermo proposito i mali e i sacrifici che qui devono essere accettati, ma nell’affrontare il cattivo principio in noi stessi […] e nel vincerne la perfidia.
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