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Passare dal Voltaire deista, filosofo, antropologo e storico al Voltaire politico e sociologo è, ancora oggi, un’operazione intellettuale molto complessa. Per prima cosa si rende necessario cercare di comprendere le “vesti di politico” del rampollo di casa Arouet e, ad ogni modo, già questa si rivela essere un’argomentazione non esente da difficoltà dato che – stando a quanto sostiene una grande fetta della moderna storiografia e della critica contemporanea – il parti philosophique francese del XVIII secolo, fatta eccezione per alcuni intellettuali come Rousseau, Morelly o Babeuf, non fu mai veramente composto da studiosi di politica strincto sensu. Sono in molti, difatti, a ritenere che contributi e formulazioni tecniche e pragmatiche di carattere politico non fossero mai appartenute ai philosophes di Francia del Sei/Settecento.
Altra complicazione è rappresentata dal fatto che lo stesso pensiero politico di Voltaire non è assolutamente lineare, anzi, si veste e si caratterizza, per la verità, di due fasi non propriamente complementari o coincidenti: si passa dal Voltaire apologeta del Dispotismo Illuminato al Voltaire sostenitore di alcune posizioni e tesi repubblicane. La materia, dunque, appare particolarmente complessa. Prima però è necessario delineare alcuni dei tratti fondamentali che vanno caratterizzando la società volterriana.
Modernità, progresso e responsabilizzazione della cittadinanza… alla base di ogni riforma o cambiamento socio-politico questa triade deve trovare sempre legittimazione e giustificazione per il patriarche de Ferney. Sono tutti precetti deisti, come abbiamo avuto modo di sostenere più volte. L’egualitarismo civile di Voltaire non si traduce in una difesa ad oltranza delle disuguaglianze sociali, dovute ad una ripartizione non equa delle risorse tra i cittadini di Francia. Tutt’altro. Si rende necessario prima una presa di posizione critica e illuminata sul perché queste disuguaglianze esistano, di modo da applicare poi, in un secondo momento, tutti quei correttivi politici ritenuti essere necessari. Ma questi correttivi devono prima essere assorbiti e compresi dalla morale e dalla ragione di ogni singolo individuo, perché fondamentale resta, in politica, partire sempre da una responsabilizzazione del cittadino moderno. Politica e realtà sociale sono sempre sinonimi in Voltaire. O meglio: la seconda giustifica e dà forma alla res publica, plasmandola, continuamente, di conseguenza.
Oltre che una società con al centro il cittadino moderno, critico ed illuminato, protagonista assoluto della propria vita sociale e responsabile maturo delle sue scelte, la società volterriana deve essere pluralista. Il deismo apre le porte dell’esegesi critica ad ogni nuovo valore alternativo che desidera essere riconosciuto e posto in essere. Il pluralismo garantisce la perenne modernità della società, in quanto stagnazione ed immobilismo valoriale sarebbero sempre scongiurati. Un pluralismo di idee, di opinioni, di rivendicazione di diversi diritti. Un pluralismo che, in primis, deve rispecchiarsi nella libertà di religione. Cina e Inghilterra sono gli esempi storici e politici portati avanti da Voltaire (inizialmente assieme anche alla repubblica ginevrina): paesi che, a detta dell’illuminista, hanno oramai perfettamente incarnato lo spirito deista. Realtà socio-politiche nelle quali diverse professioni religiose vivono in pace, sotto l’egida di re ed imperatori… garanti morali ed istituzionali del quieto vivere e dell’ordine pubblico:
Alcuni scrittori d’Europa, mai stati in Cina, avevano sostenuto che il governo di Pechino fosse ateo. Wolf aveva lodato i filosofi di Pechino, dunque Wolf era ateo; l’invidia e l’odio non producono mai sillogismi migliori. […] Finiamola soprattutto di chiamare idolatri l’imperatore della Cina e il subab del Deccan. Non bisogna essere fanatici dei meriti cinesi: la costituzione del loro impero è a dire il vero la migliore al mondo, l’unica interamente fondata sulla patria potestà (il che non impedisce ai mandarini di dar sane bastonate ai loro figli); la sola in cui un governatore di provincia sia punito quando, lasciando la carica, non è stato acclamato dal popolo; la sola ad aver istituito premi per la virtù, mentre in ogni altro luogo le leggi si limitano a punire il crimine; la sola che abbia fatto adottare le proprie leggi ai suoi vincitori, mentre noi siamo ancora soggetti agli usi dei burgundi, dei franchi e dei goti, che ci hanno dominato. […] La religione dei letterati, ancora una volta, è ammirevole. Nessuna superstizione, nessuna leggenda assurda, nessuno di quei dogmi che insultano la ragione e la natura, e ai quali i bonzi danno mille significati differenti perché non ne hanno nessuno. Da quaranta secoli il culto più semplice appare loro il migliore. […] si accontentano di adorare un Dio come tutti i saggi della terra, mentre in Europa ci si divide tra Tommaso e Bonaventura, tra Calvino e Lutero, tra Giansenio e Molina.
Una società pluralista e progressista è possibile solo se permeata in toto dalla morale naturale; il deismo rende possibile l’abbattimento del conservatorismo secolarizzato delle verità rivelate e, di conseguenza, legittima il disquisire su nuove questioni e su nuovi valori. Sul piano normativo della res pubblica il tutto poi trova legittimazione ed applicazione per mezzo della nuova autorità statale di riferimento. Ma Voltaire si auspica anche una società sempre aperta e libera: il riscatto culturale ed il progresso di una nazione non devono finire con l’esser limitati dai meri confini nazionali e territoriali. L’uomo, o meglio, il cittadino a cui l’illuminista rivolge le proprie speranze per un forte risveglio critico e razionale resta, per ovvie ragioni, quello francese, ma il referente vero e puro delle sue riflessioni rimane sempre l’individuo lato sensu:
È triste che spesso, per essere buon patriota, si sia nemico del resto degli uomini. Catone il Vecchio, questo buon cittadino, diceva sempre esprimendo la propria opinione al senato: «Questo è il mio parere, si distrugga Cartagine.» Essere buon patriota, è augurarsi che la propria città si arricchisca con il commercio e sia potente con le armi. È chiaro che un paese non può vincere senza che un altro perda, e che non può vincere senza creare degli infelici. Tale è dunque la condizione umana, che desiderare la grandezza del proprio paese equivale a desiderare del male ai propri vicini. Chi volesse che la sua patria non fosse mai né più grande né più piccola, né più ricca né più povera, sarebbe cittadino dell’universo.
L’analisi severa e rigida della Francia del XVIII secolo e l’appello alla raison – un appello forte, sentito e rivolto ai cittadini francesi -, non hanno come fine il perseguimento di ideologie nazionaliste. Voltaire, da antropologo, studia l’uomo in quanto tale, come membro di un contesto sociale umanamente organizzato. Al patriarche de Ferney interessano gli usi, i costumi, le credenze religiose, le politiche economiche, i diritti dei cittadini, l’applicazione delle leggi, ecc. Ogni aspetto legato alla realtà prettamente sociale desta interesse ed una assoluta necessità d’indagine e di studio. La filosofia dei lumi, o «filosofia della liberazione» (cfr. Labriola), non si presenta ai philosophes del calibro di Voltaire come lo strumento da utilizzare per una rivendicazione di qualunque tipo di carattere nazionale ma, bensì, essa è una guida valoriale per la formazione, in primis, di cittadini moderni e la riaffermazione, in secundis, dell’uomo all’interno del contesto sociale. L’interesse non è far progredire la Francia in riferimento alla propria forza economica o politica o militare. L’intento è rendere la società francese una società moderna. E per Voltaire l’impasse verte sul background culturale dei francesi medesimi.
La modernità deve necessariamente passare attraverso una modernizzazione intellettiva ed intellettuale della cittadinanza. Occorre una nuova figura antropologica del cittadino francese medio; un cittadino illuminato, razionale, critico ed acculturato. Anche il concetto stesso di acculturazione non fa altro che finire col divenire sinonimo di cosmopolitismo in riferimento al voltairianisme. perché per Voltaire gli scambi culturali ed i rapporti dialogici e di reciprocità tra società diverse e, al contempo, aperte le une verso le altre, restano alla base del progresso socio-politico di un paese. Il concetto di “patria” appartiene sicuramente all’illuminista. Ma, in realtà, si tratta di una congettura filosofica e politica fatta propria nel tentativo di promuovere la nascita di una coscienza critica nazionale, nella speranza di permettere poi al patriarche de Ferney di poter parlare di Francia esattamente come lui stesso disquisisce di Cina o d’Inghilterra. Ma l’uomo, quello illuminato dall’uso critico e corretto della propria ragione, non ha collocazione o “fisionomia” territoriale nel pensiero del libertino di Parigi.
Il deismo richiede una società che sia profondamente laica: laicità nei cittadini e nelle istituzioni, dunque. Non che questo debba farci pensare, nemmeno per un istante, all’ateismo o all’agnosticismo. Il laicismo, difatti, non deve tradursi in un rifiuto della religione o della spiritualità, o, in senso ampio, della teologia o della metafisica; i referenti teologici devono restare sempre definiti e chiari, sia per la vita di ogni singolo cittadino sia per il funzionamento dell’intero apparato sociale, dato che le norme e le manovre politiche vengono poi poste in essere da un garante istituzionale che ha pienamente incarnato la morale naturale. Il laicismo, al contrario, deve tradursi concretamente, in primis, in una presa di posizione critica nei confronti del Credo e della Rivelazione. Da questa nuova responsabilità, di cui si deve far carico il moderno cittadino, dipende, per l’appunto, la comprensione e la valorizzazione delle riflessioni concernenti il deismo. In secundis, il laicismo, oltre a promuovere l’esegesi critica delle professioni religiose, è congeniale per delegittimare con forza ed assoluta convinzione il ruolo sociale, politico ed istituzionale delle classi sacerdotali. Il deismo si presenta, infatti, come una religione critica, fondata sulla raison. Una religione che assume la fisionomia di un semplice appello rivolto ad una fede lato sensu, costituita da precetti umanitari e profondamente cristiani. Il ruolo di tramite tra l’uomo e Dio e la funzione d’interprete dei precetti divini non hanno più, dunque, ragion d’essere. Ma occorre una precisazione.
Questo “laicismo cittadino” non implica che le leggi e le norme non siano permeate anche da principii riconducenti alla morale cristiana. In entrambe le definizioni politiche volterriane circa la forma di organizzazione statale teorizzata (dispotismo illuminato, prima, repubblicanesimo, poi), tutto ciò che viene posto in essere sul piano delle leggi e delle riforme, possiede sempre e comunque una legittimazione riconducibile, fondamentalmente, al deismo religioso. Il re, il monarca o, più in generale, l’autorità statale, per essere riconosciuta in quanto tale, deve incarnare l’essenza della morale naturale al fine di essere autorizzata a governare e legiferare. Tutto quello che dalla politica trova un’applicazione normativa è approvato e riconosciuto come legittimo dalla cittadinanza proprio perché dalla cittadinanza stessa la morale naturale trae il suo primo grado di legittimazione e riconoscimento.
Il piano della realtà sociale resta sempre il punto di partenza per ogni riflessione concernente la res publica in Voltaire; una volta che i cittadini hanno appreso i precetti deisti, la forma stessa di governo e le stesse leggi, che da quest’ultimo vengono poi legiferate, ottengono una “giustificazione (per l’appunto) deista”. Altrimenti non vi può essere legittimità nell’operato dell’autorità istituzionale. Si tratta di un vero e proprio rapporto contrattualistico e di reciprocità tra società e Stato. Ecco perché, in riferimento a questa dinamica socio-politica, Voltaire “completa” Hobbes, oltrepassando le sue stesse teorie. La legittimità contrattualistica di una forma di governo passa, stando al patriarche de Ferney, attraverso una lettura attenta ed analitica della realtà sociale; una lettura che, in parte, al filosofo inglese manca. Hobbes parla di sudditi; Voltaire, invece, mira alla formazione di una classe di moderni cittadini. Nella lettura libertina di Voltaire, la società rappresenta il tramite tra l’autorità ed il cittadino. Ed è nel sociale e nella comune realtà di tutti i giorni che la critica umana si deve formare per plasmare poi l’assetto politico-istituzionale della nazione.
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