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Il pensiero politico di Voltaire resta particolarmente complesso persino ai nostri giorni. L’illuminista parigino formula molte riflessioni di natura politica ma non sviluppa mai pienamente un preciso sistema politico di riferimento attorno al quale un contesto sociale debba poi organizzarsi e trovare un assetto anche di natura istituzionale. L’attenzione di Voltaire è rivolta soprattutto alla realtà sociale entro la quale l’uomo – il citoyen – deve poi muoversi al fine di organizzare la propria esistenza e (soprattutto) la propria condotta civica. Se le conclusioni di carattere politico, cui giunge il patriarche de Ferney nel corso della vita, restano, in larga parte, tutte legittimate dai precetti morali ed etici della dottrina deista, inquadrare Voltaire all’interno di un preciso e definito percorso di analisi e di studio delle forme di governo e di Stato risulta, ancora ai nostri giorni, non esente da difficoltà.
Voltaire non è un teorico della moderna democrazia, ma, al contempo, alcune tematiche democratiche gli appartengono. Parla di “dispotismo illuminato” e di costituzionalismo monarchico ma, allo stesso tempo, non disdegna nemmeno molte tesi politiche concernenti il repubblicanesimo. Il voltairianisme, nella sua sfaccettatura prettamente politica, si presenta tutt’oggi come un’enorme concatenazione di riflessioni, di conclusioni e di idee – alcune alternative, altre conservatrici ed altre ancora reazionarie – che ci permettono di cogliere tanti singoli aspetti del “Voltaire politico” ma che non ci consentono, allo stesso tempo, di evincere un sistema concettuale che possa fare da riferimento universale per lo studio della res publica.
Nonostante resti tutt’oggi un argomento di delicato dibattito culturale ed accademico, vi è la diffusa e condivisa opinione di considerare Voltaire un esponente del contrattualismo politico. La differenza, in ogni caso, tra il patriarche de Ferney e altri teorici contrattualisti (come Hobbes o Rousseau) risiede soprattutto sul fatto che del “momento contrattualista” vero e proprio – ovvero di quella dinamica socio-politica che differenzia i lupi dai sudditi in Hobbes e il cittadino corrotto dal repubblicano virtuoso in Rousseau – Voltaire non fa mai menzione. Stando al pensiero dell’illuminista parigino, nel passaggio dallo stato di natura allo stato sociale, l’uomo per divenire citoyen deve, assieme agli altri suoi simili, rispecchiarsi nell’universale sovranità della legge. Legge che viene incarnata dal sovrano e che deve riflettere i contenuti della morale naturale, ovvero, quindi, i precetti del deismo. In Voltaire, dunque, è presente la consapevolezza di come per l’uomo sia necessario l’esistenza di un comando e di un potere superiore tale da permettere la stabilità di un’organizzazione sociale, la quale, per forza di cose, deve inevitabilmente instaurarsi ,data l’incapacità degli uomini di vivere pacificamente nel loro solo stato naturale. Il fatto è che le difficoltà di Voltaire di definire accuratamente una forma di Stato si rispecchiano nella “incapacità” dello stesso di assumere totalmente le vesti di un contrattualista de facto.
Voltaire è ben consapevole della diseguaglianza naturale esistente tra gli uomini e di come essa abbia poi trovato riscontro anche nella realtà sociale; da qui la sua impossibilità di accettare ogni tesi concernente l’egualitarismo sociale ed il suo ripiegare su quello più spiccatamente civile, sulla meritocrazia – anch’essa d’ispirazione inglese – e sull’eguaglianza di ciascun cittadino dinanzi alle leggi dello Stato. Nonostante le conclusioni di Voltaire sfocino appieno in un profondo pessimismo antropologico – il che lo avvicina, sotto alcuni punti di vista, alle posizioni hobbesiane –, la concezione di partenza dell’uomo sociale e dell’uomo colto nel proprio stato di natura sono profondamente diverse da quelle designate da Hobbes. Voltaire non considera gli uomini come lupi nello stato di natura ma, piuttosto, come individui dominati dall’amor proprio e da sentimenti di commiserazione e giustizia. La natura umana di per sé è, quindi, portatrice di quei valori fondanti la legittimazione dell’aggregazione sociale. In Voltaire non si registra la discontinuità tra i lupi ed i sudditi di Hobbes; l’uomo naturale “vive naturalmente in società” e questo, per il philosophe, non produce un’asimmetria ontologica tra realtà naturale e realtà sociale. Il contratto, dunque, trae giustificazione in Voltaire solo per l’incapacità dell’uomo di autoregolarsi sul piano della vita sociale e non perché portatore di uno stato naturale dedito all’egoismo o alla solitudine. La distanza con Hobbes è giustificata, in modo sostanziale, dal diverso approccio antropologico: per Voltaire gli uomini non sono lupi affamati e spronati solo dalla brama di potere. Al contrario, sono, fin dallo stato naturale, dei veri e propri esseri sociali veicolati all’interazione. Ma, nonostante l’assenza del conflitto – tipicamente hobbesiano – all’interno dello stato naturale, anche in Voltaire vi è la consapevolezza dell’incapacità dell’uomo non solo di autoregolarsi ma anche di porre in essere le sue qualità più virtuose. Ecco il perché della necessarietà della legge. Legge che, nelle prime formulazioni politiche di Voltaire, s’identifica con la figura del sovrano illuminato dalla lumiere della raison.
A partire dal 1740, Voltaire inizia ad intrattenere un’assidua e duratura corrispondenza letteraria con Federico II di Hohenzollern, meglio conosciuto in seguito con l’epiteto de “Il Grande”. Nonostante i numerosi tentativi da parte di Federico II di ottenere, fin da subito e definitivamente, la compagnia e la presenza in Prussia, a Postdam, dell’illustre filosofo di Parigi, Voltaire si trasferisce alla corte del sovrano solo nel 1749. Vi risiede, in qualità di ciambellano reale, fino al 1752. Il rapporto con Federico II è alquanto particolare e caratterizzato da veri e propri alti e bassi: i due si ammirano ma, a seguito di alcune particolari vicende, questa loro amicizia trova anche un ruvido momento di rottura e d’incomprensione, tanto che lo stesso Voltaire, colpevole di aver tentato di fuggire dalla Prussia, viene arrestato e trattenuto a forza per un po’ di tempo a Francoforte. Passano all’incirca dieci anni prima che i rapporti si riallaccino e tornino ad essere pacifici. Ad ogni modo, il legame avuto e condiviso con Federico II – paragonabile a quello intrattenuto tra Diderot e Caterina II di Russia – ci permette di analizzare e di porre ad esame tutta una serie d’importanti osservazioni politiche e filosofiche in seno al philosophe parigino. È, infatti, in quell’intervallo temporale che possiamo cogliere tutte le tesi volterriane formulate nei riguardi del dispotismo illuminato e del costituzionalismo monarchico. Tesi che lo stesso Voltaire ha da tempo ereditato e fatto proprie. Fin dalla sua giovane esperienza inglese.
Alla base della concezione volterriana del potere vi è una visione contrattualistica. Nonostante l’illuminista francese finisca col discostarsi notevolmente da pensatori del calibro di Thomas Hobbes, il contratto sociale, anche in Voltaire, rimane sempre il compromesso socio-politico per merito del quale l’autorità (sia essa un sovrano o un parlamento sullo stile di quello inglese) trae legittimazione nel governare e nell’emanare gli atti di legge. Ma quelli che per Hobbes continuano a rimanere sempre e comunque dei sudditi, per Voltaire essi acquisiscono, invece, i connotati di moderni citoyens. In realtà, soprattutto dopo la presa di coscienza dell’esistenza del «male nel Mondo» e dell’impossibilità di giungere al «migliore dei Mondi possibili» (cfr. Il Candido), la visione antropologica tra Hobbes e Voltaire non differenzia in modo profondo: se il filosofo inglese ha modo di cogliere una profonda asimmetria tra la morale e l’etica dell’uomo – una asimmetria che si rispecchia nella disparità tra lo stato di natura e quello sociale dell’essere umano -, Voltaire resta sempre combattuto tra un profondo pessimismo storico (giustificato dalle barbarie e dalle violenze fanatiche commesse dagli individui in nome, per lo più, di deviate credenze religiose) ed uno speranzoso ottimismo antropologico (perché chiara rimane sempre in lui la convinzione che un progresso umano, se attuabile, debba per forza passare da un risveglio della ragione). Ma il paradigma concettuale è profondamente diverso tra i due filosofi: per Hobbes l’autorità deve elevarsi ed imporre il proprio comando… e questo senza che vi sia la necessità che per tale attuazione venga posto in essere (o meno) un compromesso illuminato tra sovrano e sudditi. Voltaire, dal canto suo, ritiene opportuno che la morale naturale investa completamente la società: dalla formazione di una classe illuminata di cittadini si erige poi, per forza di cose, un apparato istituzionale legittimato da quei medesimi valori di cui il sovrano si deve far portavoce in ambito legislativo e dei quali la stessa cittadinanza possa riconoscere sempre la validità e la valenza. In Voltaire, dunque, la reciprocità tra cittadini e sovrano si fonda su di un rapporto triadico del tipo Stato-società-cittadinanza, dove la qualità politica ed istituzionale della res publica è consequenziale a quanto ottenuto e posto in essere, prima, sul piano della realtà sociale.
Il dispotismo illuminato del patriarche de Ferney è giustificato sulla base di tale presupposto concettuale, ma assume anche un altro significato particolare. Voltaire ha modo più volte di rendersi conto di quanto inizialmente possa essere problematico e difficile illuminare le menti del peuple. Proprio a causa di ciò, far sì che un siffatto incarico pedagogico e di avanguardia culturale venga svolto da un sovrano che sia guidato dalla filosofia ed illuminato dalla raison, gli appare essere una soluzione più che apprezzabile. La logica politica del “re guidato ed istruito dalla figura del filosofo” non è certamente nuova ma è il pragmatismo e la duttilità dei valori deisti a rendere, in parte, tale osservazione particolarmente degna di attenzione per quei tempi. Nel caso in cui la nazione possa contare già su di una classe di cittadini colti e dotati di coscienza critica, sia la nascita dell’apparato di governo sia il ruolo ad esso riconosciuto in ambito (soprattutto) legislativo si fonda di conseguenza su di una profonda rispondenza tra cittadini ed autorità: ogni legge è la diretta conseguenza della salvaguardia e della condivisione dei precetti costituenti la morale naturale. Ciò garantisce una coincidenza di visione e d’interessi tra chi governa e chi viene governato. Se, invece, istruire le masse risulti essere impossibile, allora che esse intanto siano guidate da un sovrano illuminato e dotato di profonda capacità razionale. Ecco Voltaire!
Questa situazione socio-politica può apparire vicina alle teorie hobbesiane, ma per Voltaire l’esecuzione del potere politico non deve mai ridursi ad essere semplicemente coercitivo o restrittivo. Il deismo e, quindi, la filosofia hanno il dovere di essere il bagaglio valoriale attraverso il quale l’autorità deve, di volta in volta, prendere spunto al fine di mantenere l’ordine e promuovere il progresso. Ma è proprio su questo tema che si apre il dibattito circa il concetto di diritto, di legge e di rappresentanza in seno al voltairianisme. Qui si aprono le riflessioni che possono portarci a leggere Voltaire anche in un’ottica più marcatamente democratica. Trattasi, ad ogni modo, di una chiave di lettura che non descrive in modo definito il pensiero politico di Voltaire, ma che, ad ogni modo, si palesa alquanto utile per permetterci di comprendere anche tutte le difficoltà incontrate dall’illuminista di Parigi nel tentativo di riuscire a descrivere una chiara forma di organizzazione istituzionale.
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