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Se ci venisse chiesto di spiegare o di descrivere la concezione volterriana di religione, ovvero in che modo effettivamente Voltaire percepisca la teologia nel suo significato più ampio e più puro possibile, ci troveremmo in una situazione di particolare “vantaggio culturale”. Questo perché, all’interno del Dictionnaire philosophique, e più precisamente in riferimento alla Quinta Questione concernente l’art. Religion, l’illuminista si mostra essere, fin da subito, chiaro e preciso, riguardo la posizione assunta nei confronti della teologia:
Dopo la nostra santa religione, che senza dubbio è la sola buona, quale sarebbe la meno cattiva? Non dovrebbe essere la più semplice? Non dovrebbe essere quella che insegnasse molta morale e pochi dogmi? Quella che tendesse a rendere gli uomini giusti senza renderli assurdi? Quella che non ordinasse di credere a cose impossibili, contraddittorie, ingiuriose per la Divinità e perniciose al genere umano, e che non osasse minacciare di pene eterne qualunque persona dotata di buon senso? Non dovrebbe essere quella che non sostenesse la sua credenza grazie a dei boia, e che non inondasse la terra di sangue per dei sofismi inintelligibili? Quella in cui un equivoco, un gioco di parole e due o tre documenti apocrifi non facesse un sovrano e un Dio di un prete spesso incestuoso, omicida e avvelenatore? Quella che non sottomettesse i re a questo prete? Quella che insegnasse soltanto la venerazione di un Dio, la giustizia, la tolleranza e l’umanità?
Voltaire, seguendo il percorso tracciato da Blount e Gildon, crede nell’esistenza di un Essere Supremo; un Divino Creatore, regolatore e custode dell’intero Universo. L’analogia dell’orologiaio – menzionata nel Traitè de métaphysique – ci permette, ancora oggi, non solo di comprendere chiaramente l’idea volterriana di divinità ma, bensì, anche di evincere quale fisionomia caratterizza quel Dio deista, tanto caro al patriarche de Ferney:
Quando vedo un orologio con una lancetta che segna le ore, concludo che un essere intelligente ha progettato la meccanica di questo meccanismo così che appunto la lancetta segni le ore. Perciò, quando vedo il meccanismo del corpo umano, concludo che un essere intelligente ha progettato questi organi per essere nutriti all’interno del ventre materno per nove mesi; gli occhi per vedere, le mani per afferrare e così via. Ma da simile argomento, non posso concludere nient’ altro, a parte per il fatto che sia probabile che un essere intelligente e superiore ha preparato e dato forma alla materia con abilità; non posso concludere da tale argomento e basta che questo essere ha creato la materia dal nulla o che è infinito in qualsiasi senso s’intenda.
Il Dio deista di Voltaire è visto alla stregua di un’entità distante e distaccata, non minimamente interessata alle questioni umane e terrene, ed intenta soltanto ad accudire il corretto funzionamento di tutte quelle leggi naturali regolatrici dell’intero Mondo. Risalire alla stessa divinità, con il fine di darne ed evidenziarne la corretta fisionomia ontologica, non solo appare agli occhi del libertino impossibile, data la limitata capacità intellettiva dell’essere umano, ma risulta essere anche del tutto inutile e privo di ogni interesse epistemologico; gli uomini devono dedicarsi alla comprensione delle leggi naturali per sviluppare scienza e conoscenza e, al contempo, far propri i precetti virtuosi, concernenti la fratellanza e la compassione. Precetti che da Dio stesso giungono sino a loro. Questo – e solo questo – può rendere possibile una pacifica convivenza tra gli uomini ed il raggiungimento di un saldo equilibrio sociale tra tutti i componenti della società. Soffermarsi sugli aspetti prettamente teologici, riguardanti la sacralità di alcune tematiche quali, ad esempio, l’antropomorfismo di Dio et similia, ha come conseguenza il solo inasprimento degli animi e lo sfociare dell’intolleranza isterica e fanatica tra le genti.
Il deismo volterriano, in quanto tale, si presenta come una morale costituita dai più virtuosi e retti precetti cristiani; il ripudio della guerra e della violenza, la tolleranza ed il rispetto per le altrui opinioni (di qualunque natura o tipologia esse siano) ed il perseguimento e mantenimento di un sereno e pacifico ordine pubblico, sono le fondamenta concettuali, in primis, e comportamentali, in secundis, di cui si costituisce questa religione naturale. L’elaborazione razionale e critica alla base del deismo e la formulazione stessa della fisionomia di Dio traggono giustificazione e legittimazione, sempre e comunque, dalle implicazioni socio-politiche, che da tali riflessioni si originano, e, di conseguenza, dalle necessità e dai bisogni concreti della nazione. La morale naturale auspica una forte critica nei riguardi delle ingerenze compiute dalle classi sacerdotali sugli affari di Stato e, a causa di questo, trae legittimazione dalla reinterpretazione dei testi antichi, col fine di giungere ad una nuova definizione di Dio. Un Dio distaccato, lontano, per il quale non è più necessario (o doveroso) compiere atti di umana crudeltà per valorizzarne la sacralità di un qualsivoglia aspetto ontologico. Il deismo pone in essere, sul piano della mera politica, l’attuazione di tutta quella serie d’interventi e di riforme, finalizzate al perseguimento di una pacifica convivenza tra tutti i membri di un paese: ripudio dell’intolleranza religiosa, dell’ingiustizia, dell’iniquità sociale, della tortura, ecc.
Se, dunque, il deismo volterriano è un prodotto della ragione, la morale naturale stessa trova la propria fonte di legittimazione nell’uso illuminato dell’intelletto umano. Si tratta di una vera e propria “morale universale”, fondata sul progresso intellettivo dell’uomo e non più giustificata da un dogma o da un mero codice etico di una religione storica e/o rivelata e/o secolarizzata:
La morale non risiede nella superstizione, e nemmeno nelle cerimonie, non ha niente in comune con i dogmi. Non si ripete mai abbastanza che tutti i dogmi sono diversi, e che la morale è la stessa presso tutti gli uomini che fanno uso della loro ragione. La morale viene quindi da Dio come la luce. Le nostre superstizioni sono solo tenebre. Rifletti, lettore: estendi questa verità; trai le tue conseguenze.
Ecco allora che il deismo, più che una religione lato sensu, finisce con l’assumere i connotati di un richiamo puro e semplice ad un mero concetto di “fede”. Una fede motivata dalla stessa raison, poiché la ricezione (o meno) dei precetti virtuosi provenienti da Dio, la loro corretta comprensione, la discrezionalità nello scegliere tra il Bene ed il Male e via discorrendo, dipende sempre dalla capacità di ragionare di ciascun individuo:
Che cosa è la fede? È forse credere ciò che appare evidente? No: mi è evidente che c’è un Essere necessario, eterno, supremo, intelligente; questa non è fede, è ragione. Non ho alcun merito nel pensare che questo Essere eterno, infinito, che è la virtù e la bontà stessa, desideri che io sia buono e virtuoso. La fede sta nel credere, non ciò che sembra vero, ma ciò che sembra falso al nostro intelletto.
Il deismo, dunque, non assume le vesti di una religione secolarizzata, ferma ed immobile attorno alle proprie tradizioni ed ai propri valori. L’esegesi degli antichi testi permette una lettura nuova e moderna dei contenuti del Cristianesimo. Quest’ultimi vengono riletti e reinterpretati, sulla base di una loro applicazione concreta e pragmatica, nei riguardi sia del piano della politica che della realtà sociale. Questo perché l’intento è quello di sollecitare un forte impulso rivolto al progresso; un progresso inteso in un significato anche profondamente tecnico e pragmatico. Un progresso in quanto tale, nel significato più ampio del termine, e non solo di carattere prettamente accademico o culturale. Le tradizioni storiche ed i valori assoluti del dogmatismo oscurantista devono essere delegittimati, se non (più) utili sul piano della res publica; la morale naturale, al contempo, deve continuamente tenersi “aggiornata” e deve costituirsi di nuovi valori (anche alternativi). Quest’ultimi servono a garantire la salvaguardia ed il riconoscimento di tutti quei nuovi diritti che si potrebbero anche affermare (o non), durante gli anni a venire. L’immobilismo politico, normativo ed istituzionale, così facendo, viene spazzato via e l’organizzazione sociale è in grado di dotarsi di un nuovo e slanciato dinamismo interno. Tutto questo pone le basi per il riconoscimento, alla religione, di una vera e propria funzione socio-politica di particolare importanza e rilevanza. Il ripudio dell’ateismo e la critica agli ateisti trovano nel voltairianisme i propri due punti di forza rispettivamente nel considerare la religione come un fattore di aggregazione sociale e nel ritenerla anche capace di svolgere una funzione di “deterrente” nei confronti di molteplici tipologie di reati (soprattutto di quelli concernenti il codice penale).
La religione, rivitalizzata nei suoi stessi contenuti dalla razionalità e dalla criticità dell’uomo illuminato (il philosophe), una volta liberatasi dal dogmatismo assolutistico e dal fanatismo superstizioso, può rendere possibile la formazione di un nuovo bagaglio valoriale di riferimento, attorno al quale tutti coloro, che si trovano a vivere in un dato contesto sociale, possono riconoscersi di conseguenza. Anche in questo consiste il carattere di universalità della morale naturale, secondo Voltaire. L’idea stessa poi di una vita dopo la morte, caratterizzata dall’accesso al Regno dei Cieli solo in caso di una conduzione retta e virtuosa della propria vita terrena, implica il rispetto per le leggi vigenti e per tutti quei principi tesi alla fratellanza ed alla tolleranza tra gli individui. Qualora le leggi non fossero in grado di punire i misfatti e le ingiustizie causate volontariamente dall’uomo, il giudizio di Dio, in ogni caso, giungerebbe sull’interessato, precludendogli così l’accesso alla beatitudine eterna.
La fisionomia ontologica di Dio non è la sola ad essere sottoposta ad una rilettura razionale e critica da parte di Voltaire. L’attenzione rivolta alla storiografia delle antiche scritture e la stessa esegesi biblica indirizzano il patriarche de Ferney anche verso una profonda reinterpretazione e “alternativa contestualizzazione” della figura di Gesù Cristo. L’immagine e l’idea di un Essere Supremo, distaccato e disinteressato dagli affari umani e terreni, rende priva di ogni fondamento spirituale e teologico la presenza di un divino mediatore tra Dio e l’uomo. Esattamente come sul piano della res publica la funzione di guida e di avanguardia culturale, esercitata dal clero, risulta, agli occhi dei deisti, inutile e restrittiva, al fine di una piena e razionale comprensione delle leggi naturali, sul piano della mera religiosità Cristo viene completamente spogliato della propria natura divina. Il Cristo di Voltaire è inteso e percepito in una chiave sociniana, in cui sia la transustanziazione sia l’ipostasi finiscono con l’essere respinte in toto. La “rilettura” di Voltaire veicola il philosophe a concepire Cristo nelle vesti di uomo virtuoso e retto, degno di paragone con i più grandi filosofi dell’umanità e per questo, quindi, meritevole di essere preso a modello, in quanto considerato come individuo illuminato dalla ragione e dalla virtù. Cristo come Socrate, stereotipo del philosophe vittima della persecuzione, dell’ignoranza e del fanatismo religioso. Se, quindi, la rielaborazione di Dio è la prova di quanto la dottrina deista desideri distaccarsi dalle tradizioni e dai valori secolari delle verità rivelate, la nuova interpretazione storica e ontologica della figura di Gesù Cristo diviene l’ulteriore prova di come il deismo fondi i propri contenuti su di una esegesi profondamente critica. Un’esegesi che deve sempre essere legittimata e giustificata dai reali ed immediati bisogni della realtà sociale e politica di riferimento. Cristo presentato e mostrato nella sua dimensione umana, come uomo virtuoso, retto e dotato di profonda intelligenza ed umanità; il Cristo philosophe di Voltare è, in definitiva, il tentativo (l’ennesimo) di giustificare, da una parte, la profondità delle tesi sostenute in seno alla filosofia ed alla religione e, dall’altra parte, di dar vita ad un’icona che possa fungere da riferimento e da guida a tutti coloro che desiderino dedicarsi al credo non col fine di una mera ubbidienza ma con l’intento di promuovere una personale ricerca gnoseologica della verità. Il Cristo volterriano assume le vesti, quindi, di un inno all’individualità, all’umanitarismo ed alla stessa filosofia.
Théiste e/o philosophe non sono altro che due facce della stessa medaglia. Secondo Voltaire, la filosofia e la ragione guidano l’uomo illuminato in ogni campo d’indagine e d’interesse. Persino in quello arduo e tortuoso della metafisica. Per il patriarche de Ferney, la comprensione del Dio deista, un Dio colto nella sua divina umanità e virtuosità e non nella sua trascendenza ontologica, è il risultato finale di un processo razionale di elaborazione intellettiva a cui solo e soltanto il filosofo può mai sperare di giungere. Solo il philosophe è in grado di comprendere di quale reale Dio gli uomini abbiano realmente bisogno; un Dio retto, buono, compassionevole ma, allo stesso tempo, distaccato e disinteressato dagli affari terreni. Un Dio per il quale né odio né intolleranza devono esser spesi e consumati in seno a diatribe legate alla sua sacralità o alla sua divina natura. Chi sia, come agisca, di quali valori eterni ed immutabili esso si vada costituendo et similia, sono tutte questioni che non devono assolutamente avere la minima importanza, nel processo di adorazione che l’uomo deve rivolgergli in ogni attimo della propria vita. Il teista si limita a condurre una vita onesta, nel rispetto dei valori impartitogli da Dio. Ma non solo; il vero credente deve anche volgere sempre lo sguardo alla situazione socio-politica del proprio paese. Perché la difesa degli oppressi, la divulgazione dei precetti morali di provenienza divina, il rifiuto della violenza, la lotta all’intolleranza, ecc., restano le dinamiche attraverso le quali misurare, di volta in volta, il grado di responsabilità, sia cristiana (in quanto figlio di Dio) sia civile (in quanto cittadino illuminato dalla luce della ragione), che lo differenziano dai proseliti delle verità rivelate e storiche. Agli occhi di Voltaire, il vero filosofo diviene un teista, nel medesimo momento in cui abbraccia l’idea di una filosofia militante e tesa al perseguimento di concreti e pragmatici vantaggi sociali per i propri simili e per la propria nazione. La religione, dunque, non è un mero campo di analisi e/o d’interesse, nel quale svolgere riflessioni solo per giungere a conclusioni astratte e/o valide solo da un punto di vista concettuale. Tutt’altro. La spiritualità e la metafisica si mostrano come realtà costituite da valori e variabili umane che devono non esaurirsi nella mera dimensione della fede, ma trovare poi riscontro e applicazione nella realtà. Solo la filosofia può permettere una rielaborazione pragmatica del credo per consentire che agli stessi credenti vengano poi salvaguardati e riconosciuti quei diritti e quegli ideali nei riguardi dei quali essi stessi sono dei fedeli proseliti. Per Voltaire, quindi, il théiste è tale in quanto philosophe, ovvero in quanto individuo risvegliatosi dal torpore dell’ignoranza grazie alla lumière de la raison.
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