LA DIALETTICA ARISTOTELICA: PARTE SECONDA.


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Esposti i quattro predicabili, Aristotele parla di «generi delle predicazioni»:

Dopo questo bisogna determinare i generi delle predicazioni, nei quali si collocano le quattro di cui abbiamo parlato. Questi generi sono dieci di numero: che cos’è, qualità, quantità, relazione, dove, quando, esser posizionato, avere, agire, patire. L’accidente, il genere, il proprio e la definizione saranno sempre contenuti in una di queste predicazioni, giacché tutte le proposizioni costituite in virtù di essi significano o che cos’è o qualità o quantità o una delle altre predicazioni.

Questi sopraindicati dieci generi altro non sono che degli espedienti dialogici tramite i quali l’interlocutore avvia e sviluppa l’argomentazione sull’oggetto della discussione medesima. Se prendiamo, ad esempio, un generico oggetto X, tali predicazioni possono permettere di disquisire circa ben definite argomentazioni: da che cos’è Xquali caratteristiche qualitative possiede X, e via discorrendo. Questa classificazione è distinta e coincide solo parzialmente con quella dei quattro predicabili: se ad X attribuiamo una definizione o un genere, rispondiamo alla domanda che cos’è X, ma se, invece, gli assegniamo un proprio o un accidente, allora la predicazione potrà rientrare in una qualunque degli altri tipi. Il termine kategorìa viene usato da Aristotele per indicare sia una precisa predicazione sia tutti e dieci i possibili tipi di predicazione. Si consideri, adesso, il seguente passaggio aristotelico:

È chiaro dalle cose stesse che colui il quale significa che cos’è significa a volte una sostanza, a volte una qualità, a volte invece uno degli altri predicati. Quando, infatti, essendo dato un uomo, egli dica che ciò che è dato è uomo o animale, egli dice che cos’è e significa una sostanza; quando invece, essendo dato un colore bianco, egli dica che ciò che è dato è bianco, o è un colore, egli dice che cos’è e significa una qualità. Allo stesso modo, essendo data la lunghezza di un cubito, egli dica che ciò che è dato è un cubito o è una lunghezza, dirà che cos’è e significherà una quantità.

In breve: se domando che cos’è X?, le risposte costituiranno una “classificazione di tipi di entità”. A differenza di prima dove su un oggetto X ponevamo, via via, domande sempre diverse, ora rivolgiamo sempre la stessa domanda – che cos’è? – ad entità differenti; ma queste due classificazioni restano, ad ogni modo, speculari.

Altro aspetto verso cui il dialettico deve rivolgere la propria attenzione riguarda la distinzione esistente tra le categorie. L’espressione “si dice in molti modi” è particolarmente oggetto di riflessione da parte di Aristotele. Se, ad esempio, prendessimo in considerazione la formula X è buono, dovremmo, inevitabilmente, ragionare proprio sul concetto buono e vedere cosa esso significhi in riferimento al particolare contesto trattato. Questo “esser buono” potrebbe, infatti, riferirsi ad una caratteristica quantitativa o qualitativa o ad un’altra categoria. La distinzione tra le medesime, quindi, risulta essere rilevante in ambito comunicativo. Passiamo adesso all’analisi dei topoi.

Questi “luoghi” sono delle vere e proprie prescrizioni per l’argomentazione stessa e si organizzano sulla base della distinzione dei quattro predicabili, ovvero a seconda di come il predicato sia proposto dal rispondente all’interno della sua stessa tesi – cioè se presentato come accidente del soggetto, o un suo genere, o un proprio o la sua stessa definizione -. Facciamo un esempio, anche per chiarire meglio la capacità d’inferenza svolta dai topoi all’interno di un rapporto dialogico. Supponiamo che la tesi sostenuta dal rispondente risponda alla formula X appartiene a Y – per esempio “pari appartiene al prodotto di due numeri dispari”, ovvero “due numeri dispari danno come prodotto un numero pari” – e vediamo, come tramite i topoi (anziché dimostrare direttamente o indirettamente la falsità della suddetta tesi), l’interrogante possa riuscire a confutarla. Sarà necessario “cambiare luogo”, ovvero dimostrare che X appartiene a B – “pari appartiene al prodotto di due numeri pari” – e che, quindi, X non appartiene a Y.

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